(giancarlo guidetti) La pioggia non ha fermato le tante persone devote di Sant’Antonio Abate che, rispettando la Tradizione, si sono ritrovate oggi, 19 gennaio, presso la Chiesa di San Lorenzo, per celebrare la Festa del fondatore del monachesimo e protettore (tra i gli altri patronati) degli animali amici dell’uomo.

Ad Ivrea l’appuntamento è reso ancora più caratteristico dalla presenza dei cavalli, protagonisti (sia sellati, sia a comporre i tiri) dell’incontro.

Ma non sono mancati i piccoli animali domestici, anche quale “memoria” di quando nelle campagne gli animali da lavoro erano compagni dell’uomo nella fatica quotidiana.

Presente anche il Vespa Club, che ha ulteriormente “colorato” una giornata che non si è rassegnata al grigiore invernale.

Il video e la gallery che proponiamo raccoglie qualche momento di una mattina “fredda” solo in senso meteorologico, ma che, invece, ha riscaldato i cuori per la numerosa partecipazione e soprattutto per le parole sapienti ed a tratti commoventi del Celebrante, Don Renzo Gamerro.

L’anziano Sacerdote, nel corso dell’omelia, ha saputo tratteggiare la figura del Santo quasi con una giustapposizione a quella del giovane ricco, che non si pone alla sequela di Gesù “perché” – informa il Vangelo – “aveva molti beni” dai quali non riuscì a staccarsi, nemmeno in vista del bene più grande.

Anche quest’anno alla festa ha preso parte il Sindaco di Ivrea, Avv. Matteo Chiantore, che ha acconsentito a portare un saluto ai nostri Lettori, come racconta il video.

Le immagini ci offrono altresì la presentazione dei Priori.

Per chi desidera sapere di più sulla figura del grande “Padre del deserto”, a seguire un approfondimento della Prof. Elisabetta Acide

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(elisabetta acide) – Ecco qualche informazione, per chi volesse saperne di più sulla vita di S. Antonio Abate.

Sant’Antonio il Grande nacque in Egitto, a Coma, una località sulla riva sinistra del Nilo, intorno all’anno 250.

Fu un eremita tra I più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico. Antonio, di cui conosciamo la vita grazie alla biografia scritta dal suo discepolo Atanasio, fu un insigne padre del monachesimo orientale.

Malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste ed ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione e alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri, si ritirò nel deserto e li cominciò la sua vita di penitente.

Compiuta la sua scelta di vivere come eremita, trascorse molti anni vivendo in un’antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se foste rimasto nel mondo. A volte il diavolo si mostrava sotto forma di bestia feroce – soprattutto di porco – allo scopo di spaventarlo, ma a queste provocazioni Antonio rispondeva con digiuni e penitenze di ogni genere, riuscendo sempre a trionfare.

La sua fama di anacoreta si diffuse ben presto presso i fedeli e Antonio, che voleva vivere assolutamente distaccato dal resto del mondo, fu costretto più volte a cambiare luogo di “residenza”.

Intorno al 311 si recò ad Alessandria per prestare aiuto e conforto ai Cristiani perseguitati dall’imperatore Massimiliano; poi si ritirò sul monte Qolzoum, sul mar Rosso, ma dovette tornare ad Alessandria poco tempo dopo per combattere l’eresia ariana, sempre più diffusa nelle zone orientali dell’impero.

Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, Antonio fu molto longevo: la morte lo colse infatti all’età di 105 anni, il 17 Gennaio del 355, nel suo eremo sul monte Qolzoum.

Sulla sua tomba, subito oggetto di venerazione da parte dei fedeli, furono edificati una chiesa e un monastero; le sue reliquie nel 635 furono portate a Costantinopoli, e poi sembra che siano state portate in Francia tra il sec IX e il X dove oggi si venerano nella chiesa di Saint Julian, ad Arles.

Nominato protettore degli agricoltori ed allevatori, anche perché rappresentato nell’iconografia con un maialino a fianco.

In Francia, in quel periodo, sorse l’ordine degli “Antoniani” approvato successivamente da papa Urbano II.

I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di S. Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio Abate un vero e proprio “santo” del popolo.

Egli è considerato il protettore contro le epidemie di certe malattie, sia dell’uomo, sia degli animali. E’ stato invocato come protettore del bestiame e la sua effigie era collocata sulla porta delle stalle.

Il Santo è invocato anche per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes nota come “fuoco di Sant’Antonio” o “fuoco sacro”.

Antonio è anche considerato il patrono del fuoco; secondo alcuni riti attorno alla sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica. E’ nota infatti l’importanza che rivestiva presso i Celti il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante.

Abbinato spesso alla protezione del fuoco nei cascinali, si procedeva con il benedizionale della benedizione delle case e dei fienili per sua intercessione. Ecco perché alcune comunità, per tradizione, festeggiano il santo per intercessione del nuovo racconto ed a protezione delle campagne proprio in occasione della sua festa.

Spesso è rappresentato con un maiale.

La tradizione dice che S. Antonio fosse accompagnato da animali (Il biografo di S. Antonio, S.Anastasio   ne nomina alcune: leoni, tori, lupi, aspidi, scorpioni – tutti animali del deserto), dunque i frati antoniani allevavano maiali anche per poter donare ai poveri che si rivolgevano a loro qualche elemento di sostentamento e il maiale ne fornisce molti.

Nell’iconografia, è stato scelto il maiale, in quanto, proprio perché non si aveva dimestichezza con gli animali del deserto, si utilizzò un animale “simbolico” che rappresentava il “peccato” e cioè il cinghiale, abitante del  bosco, divenuto, poi, per similitudine, un maiale ( dalla Borgogna – Francia), per indicare in realtà l’animale “domestico” per il santo che “addomestica” la tentazione, dunque non pecca.

Altra tradizione vuole che proprio perché legato alla tradizione contadina, anche molte famiglie, allevavano maiali in onore di S. Antonio.

Per le famiglie contadine del passato la macellazione del maiale era un momento cruciale all’interno dell’anno.

La riserva alimentare ottenuta era determinante per il sostentamento della famiglia e il rito dell’uccisione, e delle varie fasi della macellazione era un tassello importante della collaborazione, non solo familiare, ma anche del vicinato.

Fissato il giorno dell’uccisione, (si diceva che non si doveva ucciderlo in luna crescente perché la salsiccia non sarebbe durata) ci si procurava “la vanuja” (un’ampia vasca a forma trapezoidale in legno), dove veniva depositato l’animale ucciso, spellato dalle setole e ben lavato, veniva issato con delle corde alle travi all’interno del portico; gli si levavano le interiora, che venivano subito lavate e conservate perché servivano ad insaccare i figalet (le salsicce), i salami, le soppresse e i cotechini fatti con un tipo di carne tritata, salata e dosata di droghe secondo il desiderio della famiglia. Si tagliavano le braciole, le costicine, il guanciale e gli zamponi. Mentre il sangue che era stato raccolto nel pentolone di rame (di solito dalla padrona di casa) veniva adoperato per fare il sanguinaccio ma anche per mescolarlo col vino e farne un sugo prelibato dove intingere la polenta della serata.

Il periodo in cui si sceglieva la data dell’uccisione era tra il 30 novembre, Sant’Andrea, e il giorno di Sant’Antonio Abate, appunto, anche se qualcuno preferiva farlo nel periodo di Carnevale.

“In realtà, fino agli anni ’50, nel giorno di Sant’Antonio non si potevano macellare animali e men che meno il maiale, anzi si doveva provvedere perché mangiasse bene, e il rimedio alle loro malattie era il sale, che veniva benedetto durante il vespero e sparso nel fieno e in altri alimenti per dar loro sapore.

Per nutrire il maiale della comunità, protetto dal santo abate, un questuante andava di casa in casa a chiedere gli avanzi da dare all’animale, che poi veniva messo in palio per la lotteria della sagra de Sant’Antoni. Il vincitore si assicurava carni succulente per un buon periodo, ma una coscia doveva essere riservata ai più poveri del paese, che la gustavano in un pasto collettivo. Da qui il detto che girava in alcune comunità: «Toni, Toni, quala ela la gamba de Sant’Antoni?»

Il pane dei “poveri” e degli “animali”, diventa la tradizione popolare. Sull’esempio di altri santi, si usa far “benedire pagnottine” e mangiarne un pezzo ed un pezzo darne anche agli animali domestici a segno di protezione. In alcune zone il pane di s. Antonio abate è quello “dolce” ( per distinguerlo da quello di S. Antonio da Padova). Il significato, in realtà è quello della “carità” a cui mai un cristiano deve rinunciare ( dare almeno un pezzo di pane a tutti) .

Occorre anche ricordare il significato del pane come cibo  nella Bibbia e per i cristiani : Il pane,  a causa del primo peccato, richiede il lavoro dell’uomo: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen 3,19),tuttavia, il pane, dono di Dio e frutto del lavoro umano, è un bene da condividere. Abramo ai tre ospiti inattesi offre il pane per sfamarsi (Gen 18,5). Il pane condiviso ristabilisce la fraternità. I figli di Giacobbe, che vanno in Egitto a cercare il grano, trovano il fratello che, venduto per invidia, credevano morto. Il pane, così, diviene strumento di riconciliazione, di fraternità rinnovata e di unità (Gen 47,12. 54-55).

Il pane è il dono del Signore che «sostiene il cuore dell’uomo» ( Sal 104,15); è segno della benedizione che dona ai suoi amici nel sonno (Sal 127,2); è il nutrimento eccellente (Sal 81,17). Il pane interpreta le diverse situazioni della vita: se dolorose si mangia un pane di lacrime o di cenere (Sal 42,4; Is 30,20); se gioiose è pane di gioia (Qo 9,7). Il pane è simbolo della parola di Dio di cui il popolo avrà fame (Am 8, 11) perché «l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3; Mt 4,4). Con la sua parola, Dio sfama gratuitamente il suo popolo (Is 55,1ss, Prov 9,5 s; Ger 15,16).

Il pane ricordiamo, nel Nuovo Testamento è nutrimento e simbolo della parola di Dio, ma in Gesù, assume una nuova connotazione. Egli, parola del Padre fatta carne, cioè, persona, (cfr. Gv 1,14) si definisce: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,48); il «sono il pane vivo disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno» (Gv 6,51) e questo pane «è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Gesù è il nutrimento che soddisfa la fame di ogni persona: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35). Il pane, provenendo da molti grani, che dopo essere stati macinati e lavorati, diventano unico pane, quando viene spezzato e condiviso, crea unità in coloro che l’assumono. Gesù decide di rendere visibile il dono totale della sua vita, proprio nel pane che spezzò e diede da mangiare ai discepoli. Le parole «Questo è il mio corpo dato per voi. Prendete, mangiatSae!» significano appunto “Questo sono io che mi dono a voi” per farvi vivere in pienezza. E ogni celebrazione Eucaristica è per noi memoriale.

I discepoli di Emmaus lo riconoscono risorto «nello spezzare il pane» (Lc 24,35). La comunità cristiana degli inizi partecipa alla catechesi degli apostoli e “allo spezzare del pane”. I cristiani di Troade si riunivano «il primo giorno della settimana per spezzare il pane» (At 20,7).

 Non dimentichiamo che Gesù è nato a Betlemme, città di Davide, che etimologicamente in ebraico significa “casa del pane” (בֵּיִת לֶחֶם‎, Beit Leḥem). Viene fasciato e posto “in una mangiatoia”, specifica  il Vangelo di San Luca (2,7).

Nell’ Incarnazione il Dio si fa uomo e si farà pane per ogni uomo.

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