Una delle teorie più affermate del mondo della comunicazione è quella dell’Elevator Pitch, un discorso argomentativo breve e convincente, lungo a malapena il tempo di una corsa d’ascensore.
L’idea è relativamente antica e potrebbe nascere dal caso pratico che più o meno tutti abbiamo quantomeno visto in qualche american business film. Tu e il tuo capo, prendete l’ascensore assieme, devi convincerlo a investire nel tuo progetto. Terzo piano. Secondo, primo, terra. Din-Don. Game over. L’idea però non è figlia del marketing e della comunicazione moderni, è vecchia come la civiltà classica. Una spolverata al manuale di antologia latina porterà alla luce la brevitas sallustiana. Anche Cicerone, nell’avviarci alla retorica ci ammonisce ad andare dritti al punto, cosa che mi premuro di fare proprio qui a scanso di tacciata incoerenza.
Osservando l’oggi, sembra che questa linea della brevità sia stata assunta con fervore, soprattutto dai giovani immersi nella cultura digitale della messaggistica istantanea e dei social. La tendenza a ridurre il messaggio a frammenti concisi è ovunque e non è esclusiva dell’ultimo minuto: i nostri genitori con l’iconico Nokia 3310 si sono inventati i “tvb”, e prima ancora il telegramma doveva essere l’antonomasia della sintesi.
C’è del buono in tutto questo, sia chiaro. La brevità, quando ben sostenuta da contenuti solidi, è una virtù: riuscire ad essere efficaci in poche parole è un’abilità rara. Il rischio però si annida nell’uso esclusivo di questo tipo di linguaggio, quando la brevità diventa una sorta di dogma, unico, incontrastato e forzato per ignoranza o poca pratica. L’abitudine a esprimersi con poche parole può infatti minare la capacità di costruire pensieri complessi e articolati. Tutto bene sui social, ma poi quando si esce da lì? Chi è abituato esclusivamente a questo tipo di linguaggio potrebbe trovarsi impacciato. Dal laghetto dietro casa, la vastità e la complessità del linguaggio diventano un burrascoso oceano inesplorato.
Dov’è l’equilibrio? “Rem tene, verba sequentur”, ammoniva Catone: non si tratta di abbandonare la brevità, ma di arricchirla con la capacità di esprimersi in modo completo e articolato. Un buon modo è il confronto con i grandi della letteratura che non hanno età: possono essere Dante o un poeta scoperto ieri, cantici eterni o versetti ermetici… La brevità così sarà prezioso strumento d’espressione e non vincolo dell’ignoranza, vittima tecnologica dei tempi.