(Susanna Porrino)

Il 2020 è stato l’anno in cui abbiamo riscoperto il bisogno di informazione costante. La rapida diffusione di un virus nuovo e sconosciuto in un mondo osservabile solo attraverso i vetri reali o digitali delle nostre case ha riportato intere famiglie davanti a notiziari e telegiornali; l’esigenza di comprendere e ridefinire la crudezza dei dati e delle immagini veicolati dai mass media ha spinto molti italiani prima poco inclini ad usufruire di questi strumenti a leggere e documentarsi con crescente regolarità sugli eventi, improvvisandosi di volta in volta virologi, sociologi o politici in grado di comprendere ed esplorare qualunque contenuto.

Penso sia curioso che in un panorama del genere abbiano ugualmente continuato a tenere viva l’attenzione notizie tutto sommato poco rilevanti – almeno da un punto di vista pragmatico – per la collettività, come quelle relative al mondo sportivo o televisivo.

In questi giorni in particolare ha sollevato un grande scalpore mediatico, tanto da riuscire a farsi posto persino in giornali italiani di grande spessore (pur non avendo alcun nesso diretto con una realtà come quella italiana) l’intervista di denuncia della Casa Reale inglese e delle sue idee ormai antiquate da parte di una delle coppie che hanno potuto vivere direttamente una dimensione così lontana da quella quotidiana, toccando però temi come la depressione e l’oppressione che hanno risvegliato anche l’attenzione di coloro che non avevano mai mostrato particolare interesse nei confronti di tali vicende.

Questa tendenza a rifugiarci in mondi lontani dalla realtà quotidiana, come il mondo dello spettacolo o quello sportivo, dice molto di noi. La realtà dorata dei personaggi che vediamo costantemente sotto i riflettori, per quanto ci indigni negli eccessi di cui si essa presenta abbondantemente ornata, riesce al contempo ad attirarci, perché rappresenta la piena realizzazione dei valori del nostro tempo: il successo, la bellezza, il denaro.

L’indignazione che ha seguito le dichiarazioni di un personaggio come Meghan Markle, moglie del principe inglese Harry, relative alla propria sofferenza, di fatto mostra la convinzione che tali elementi siano sufficienti a garantire una felicità piena; se la depressione, come una serie di altri problemi legati alla salute mentale, rappresenta un tabù ancora difficilmente accettabile in diversi contesti, ancora più lo è l’idea che essa possa sussistere in quelle situazioni di benessere materiale a cui abbiamo profondamente imparato ad aspirare.

L’illusione che la ricchezza e la fama possano mettere a tacere l’insoddisfazione che di tanto in tanto pervade l’esistenza ci protegge dal bisogno di indagare e confrontarci con le cause reali della sofferenza che confonde le nostre vite, e in qualche modo alimenta atteggiamenti che possono diventare altrettanto alienanti, come un’attenzione morbosa per il proprio aspetto e la propria carriera.

Ma tali storie stimolano il nostro interesse anche perché riportano l’attenzione, seppur in un modo distorto e poco veritiero, sull’essere umano in quanto individuo e non in quanto entità astratta. Se i dati materiali e le statistiche a cui i media ci permettono di accedere possono avere un significato per quella componente razionale dell’uomo che grado di comprenderne la portata e di tradurli in esperienza concreta, nulla può però stimolare gli istinti e le emozioni come i racconti e le vite di altri uomini; e in un secolo in cui se non si legge meno, se non altro si legge male e con opere e libri che esplorano solo in maniera superficiale e ristretta le profondità dell’animo umano, l’esigenza di ricercare all’esterno immagini concrete in cui specchiarci e confrontare le nostre emozioni si è riversata su coloro che hanno fatto della propria vita l’oggetto dell’intrattenimento altrui.

Occorre imparare a evitare il rischio di ripetere l’errore da cui già lo scrittore ottocentesco Flaubert ci aveva messo in guardia nella sua “Madame Bovary”: lasciarci assorbire dall’attrazione verso valori e stili di vita che solo in apparenza riescono a sviare le sofferenze proprie della vita umana non solo è un atteggiamento non sano, ma è spesso così profondamente radicato da essere difficile da individuare.

Osservare ciò che di perfetto ci può venire presentato delle vite di altri non è necessariamente da condannare, ma l’unico strumento per liberarsi dai desideri preconfezionati e dalle convinzioni che abbiamo interiorizzato come società è il confronto reale e continuo con chi ci circonda e con le imperfezioni che continuamente tentiamo di nascondere.