Mi capita sovente di soffermarmi sul tema dell’esempio, su come parte del nostro apprendimento si basi sull’imitazione di un modello che ci fornisce una opportunità. Attraverso un modello noi acquisiamo una possibile risposta ad un’esperienza e possiamo ripeterla avendo costruito, nella nostra mente, una serie di azioni che ci fanno operare con sufficiente disinvoltura.
I modelli, nella nostra crescita, appartengono dapprima alle figure di cura, genitori e non, poi a tutte quelle persone che con maggiore o minore incisività ruotano nel quotidiano; insegnanti, istruttori, catechisti… Attraverso l’esempio noi non apprendiamo solo modi di fare, ma anche, e soprattutto, modi di essere. Acquisiamo il nostro bagaglio naturale, regoliamo le nostre emozioni ed indirizziamo i nostri pensieri.
Ogni epoca – e ogni cultura – hanno i loro modelli, tuttavia oggi sembra esserci molta confusione sul modello da seguire o, meglio ancora, a quale modello affidarsi.
Il dubbio mi nasce quando si tratta di temi come educare ai valori e all’etica, perché a volte sembra che non si sia esplorato a fondo il problema, che su queste determinate questioni non si sia analizzata la complessità che le ha o meno favorite, che le ha o meno mantenute, che le può portare o meno a risoluzione. Se questi elementi non sono chiari, anche la scelta di un modello da seguire appare poi riduttivo, semplicistico e potenzialmente dannoso.
Se ci soffermiamo sul tema della povertà dei valori, ci dobbiamo chiedere a quale modello ispirarci, quale esempio seguire, per permetterci di costruire, di dare nuova energia a concetti come la convivenza, la solidarietà, il rispetto, l’accoglienza e la pratica del bene, solo per citarne alcuni.
Si potrebbero utilizzare modelli coercitivi, restrittivi, punitivi, sanzionatori, energici, non senza porci la domanda se questi “sistemi” condurranno ai risultati sperati.
Abbiamo esperienza tutti i giorni, partendo anche dalla nostra piccola quotidianità, che alzando i toni della discussione, soprattutto in una società come la nostra diventata ormai particolarmente “nervosa” non si fa altro che scatenare altrettante reazioni energiche che generano più astio, più rancore, più violenza, provocando l’esatto contrario di ciò che si vorrebbe ottenere per una convivenza rispettosa e pacifica. Qui non stiamo parlando di giustizia, che deve sempre fare il suo corso, ma di proposte di approccio e di modelli capaci di generare dei veri e propri cambiamenti di comportamento positivi e di crescita personali e comunitari.
Come alternativa penso alla prosocialità, alla comunicazione assertiva, una modalità pensata, gentile. Un comportamento etico, prosociale, va al di là del confine tra le persone, diventa un’onda capace di travolgere chi ne fa esperienza perché sorprende; va al di là della persona perché l’altro potrebbe essere un perfetto sconosciuto, perché non ne esiste un diretto beneficio, se non quello psicologico, se non quello della sicurezza di aver fatto la scelta giusta.
Chi agisce in modo prosociale non si pone il dubbio che avrebbe potuto agire diversamente. Chi adotta una posizione apodittica, feroce, lesiva della dignità dell’altro potrebbe, dopo lunga e attenta riflessione, chiedersi se non avrebbe potuto tentare scelte differenti.
Ma seguire un modello prosociale risulta complesso, richiede molte energie, un’attenta rassegna dei propri comportamenti, costringe a fare i conti con i propri pregiudizi e impiega più tempo ad avere successo. Però, solo con la progettazione di un sistema etico e prosociale possiamo garantire un cambiamento orientato al benessere di tutti, che travalichi e travolga i “piccoli orticelli personali”, i piccoli poteri acquisiti per spedirci verso una comunità nuova, inclusiva, rispettosa, sicura, capace di ascoltare e di sostenere.