Da Sebastopoli assediata le cronache di un giovane ufficiale russo: L. Tolstoj

(Fabrizio Dassano)

Nel 1853 la Russia dello zar Nicola I, con un pretesto, occupò militarmente gli strategici principati danubiani della Moldavia e della Valacchia, vassalli del Sultano. La Turchia, nell’impossibilità di risolvere diplomaticamente la crisi, in ottobre dichiarò guerra alla Russia. Poi si creò un’alleanza antirussa che comprendeva, oltre all’impero di Costantinopoli, anche la Francia e la Gran Bretagna, queste ultime interessate ad impedire l’espansione russa verso gli Stretti dei Dardanelli.

Il conflitto fu combattuto inizialmente in Bulgaria e sugli Stretti, per poi trasferirsi nella penisola di Crimea nel settembre del 1854, dove gli scontri si concentrarono nell’assedio degli alleati contro la piazzaforte russa di Sebastopoli. Qui giunsero in appoggio 15.000 soldati piemontesi del regno di Sardegna. Il governo di Torino voleva sedersi al tavolo della pace per mettere in campo la questione del Lombardo-Veneto e del regno dell’Alta Italia davanti alle potenze europee, dopo la scottante sconfitta di Novara contro l’impero austro-ungarico del 1849.

Sul cominciare della “spedizione d’Oriente” le eroine della guerra lontana furono due donne liguri, le sorelle Caterina e Maria Avegno. In quel mese d’aprile del 1855 nel porto di Genova fervevano i preparativi per gli imbarchi sui bastimenti inglesi dell’esercito piemontese destinato in Crimea.

La mattina del 24 salpò il “Croesus”, grande nave britannica propulsa a vela e con motore a vapore, carica di ufficiali e soldati di sussistenza, medici, infermieri, medicinali e attrezzature per un ospedale da campo da cento letti; e poi muli e cavalli, un milione e quattrocento razioni di viveri, acquavite, fieno, carbone come carburante. Al traino aveva il “Pedestrian”, bastimento a vela che trasportava munizioni e una batteria di cannoni da campagna.

Soffiava un vento infernale, il mare era terribilmente mosso e il “Croesus” sbagliò manovra e abbatté l’albero di trinchetto del “Pedestrian” cozzandogli violentemente contro e imbarcando acqua; nonostante tutto la navigazione continuò. Ma appena superato Camogli, il grido “Fuoco a bordo!” squarciò il pensiero dello scampato pericolo: la collisione aveva causato l’incendio delle 400 tonnellate di carbone stipate sul “Croesus”.

Il “Pedestrian”, mollato il cavo rimorchio, tornò faticosamente a vela a Genova mentre il “Croesus” in fiamme si rifugiò nella piccola baia di San Fruttuoso, occupandola tutta per la sua mole e incagliandosi di prua. Fiamme e onde erano violentissime, i soldati urlavano terrorizzati, pochi sapevano nuotare: molti vedevano il mare per la prima volta. Ed ecco che dalla minuscola spiaggia ghiaiosa due donne – le sorelle Caterina e Maria Avegno – saltarono su un piccolo gozzo e si lanciarono verso il bastimento in fiamme; in vari viaggi caricarono parecchi naufraghi e li condussero in salvo. Ma la piccola imbarcazione si rovesciò e Maria, madre di otto figli piccoli, annegò. Secondo il “Times” di Londra del 1° maggio, le vittime furono 64 e le due soccorritrici erano annegate. In realtà risultarono solo 24 con Maria.

Successivamente il “Corriere Mercantile” aprì una sottoscrizione in favore della famiglia e l’Inghilterra inviò un risarcimento di 1500 franchi e insignì Maria della prestigiosa Victoria Cross, Cavour consegnò la Medaglia d’Oro alla Memoria, Maria fu la prima donna italiana a riceverla, e infine i principi Doria disposero che Maria – e poi Caterina quando in seguito morì, sempre per le conseguenze dell’impresa – venissero sepolte con tutti gli onori nella loro cripta nell’abbazia sanfruttuosina dove tuttora riposano.

L’assedio di Sebastopoli fu lungo: dal 17 ottobre 1854 al 9 settembre 1855 e un giovane sottotenente d’artiglieria era il ventisettenne conte Leone Tolstoj alle prese con i suoi scritti sul diario, poi raccolti ne “I racconti di Sebastopoli”. Non è una corrispondenza di guerra e nemmeno una lagnanza sullo stato del soldato russo da inviare allo zar, ma diventò una riflessione diretta sull’orrore della guerra: “Delle due una: o la guerra è una follia oppure, se gli uomini compiono questa follia, non sono affatto creature dotate di ragione, come chissà per quale motivo siamo soliti pensare.” Il gorgo della guerra lo trascina sempre di più e scrive: “Ho di nuovo bastonato gli uomini durante l’esercitazione. È sorprendente quanto io sia ripugnante e infelice, lo schifo che faccio a me stesso”.

L’abisso morale in cui il ricco conte Tolstoj è precipitato lo si nota dalle sue perdite al gioco d’azzardo: il 21 febbraio 1855 perse 1500 rubli inviati da suo cugino e 575 rubli a credito, arrivando a dissipare decine di migliaia di rubli che i parenti gli mandavano; perse anche la casa di Jàsnaja Poljana, così come del denaro sottratto alle casse del reggimento. Di lui esiste un ritratto impietoso fatto dal suo commilitone, il capitano Odachovkij: “ … non riconosceva la disciplina e i suoi superiori. Qualsiasi osservazione fattagli da un superiore di grado suscitava in Tolstoj un’immediata sfrontatezza o una battuta acre, offensiva”.

Nominato comandante di batteria per i suoi trascorsi nel Caucaso, il capitano Odachovkij commentava: “Quest’incarico fu un errore grossolano poiché Lev Nikolàevic non soltanto capiva ben poco del servizio militare, ma non andava affatto bene come comandante di un reparto preciso: non restava mai a lungo nello stesso posto, vagabondava costantemente di reparto in reparto, ed era assai più occupato da sé medesimo e dalla sua letteratura che non agli obblighi del servizio.”

Anche la descrizione della città semidistrutta dalle cannonate alleate ha qualcosa di familiare con ciò che ci capita di assistere oggi. L’epilogo risulta non meno efficace: i cannoni della difesa vengono buttati giù nella scarpata, i marinai avevano affondato le loro navi, una lunga passerella di legno fu l’unica via di fuga dalla città: “Uscendo dall’altra parte del ponte, quasi tutti i soldati si toglievano il cappello e si facevano il segno della croce. Ma dietro a questo sentimento ce n’era un altro, pesante, tormentoso e più profondo: era un sentimento apparentemente simile al pentimento, alla vergogna e alla rabbia. Quasi ogni soldato, dopo aver guardato Sebastopoli abbandonata dalla riva della Sévernaja, con un’inesprimibile amarezza nel cuore sospirava e mandava minacce ai nemici.”

Un’ultima pennellata all’affresco della guerra di Crimea è l’insulsa carica della brigata leggera a Balaclava contro i cannoni russi: vi perirono inutilmente 118 cavalieri, 127 furono i feriti e 362 cavalli perduti e rimasero efficienti 195 cavalieri. Tra di essi due cavalieri piemontesi: Giuseppe Govone di Alba e l’amico Giuseppe Landriani di Mi-lano: quest’ultimo ebbe il ginocchio e il femore fracassato da un colpo di cannone a mitraglia e per la ferita morirà 4 anni dopo tra indicibili sofferenze.

I Piemontesi con i Bersaglieri si distinsero alla battaglia della Cernaia ma il corpo di spedizione sardo ebbe a soffrire 2.278 morti per il colera, 1.340 per il tifo, 452 per malattie comuni, 350 per lo scorbuto, 52 per incidenti, 38 per febbri tifoidee, 3 per suicidio e 32 caduti in combattimento. Fu una guerra che costò ai russi qualcosa come tra i 140.000 e i 400.000 morti secondo le fonti, e agli alleati quasi 130.000 morti.

Un’ultima annotazione: in quella guerra gli USA mandarono aiuti e consiglieri militari ai Russi.

In copertina: Sebastopoli assediata