(Susanna Porrino)
James Joyce, uno dei più grandi scrittori del Novecento, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale compì faticosamente il suo grande esordio nel panorama letterario inglese con “Gente di Dublino”: una raccolta di racconti di vita quotidiana ambientati in Irlanda, con cui egli intendeva rappresentare la paralisi della sua città e il suo clima soffocante e oppressivo.
Una collezione di storie sulle eterne illusioni del genere umano, sui pensieri e le paure che lo paralizzano, sui sentimenti da cui si lascia guidare, il tutto narrato in un modo così preciso e raffinato da risultare comprensibili e attualizzabili anche oggi. Eppure vale la pena chiedersi se un prodotto del genere, privo delle forti emozioni e degli eventi di forte impatto di cui amiamo nutrirci, se pubblicato ai giorni nostri sarebbe ancora in grado di riscuotere un certo successo.
Con lo scorrere del tempo abbiamo perso il valore del racconto, che è lentamente stato confinato nell’ambito del mito e della letteratura infantile; gli scorci chiusi e ridotti sulla realtà quotidiana ci infastidiscono perché non ci forniscono risposte né ci permettono di coltivare illusioni.
I film e i libri che oggi vanno per la maggiore tentano di coprire in un limitato numero di pagine o minuti un arco sempre più vasto di tempo e di eventi, finendo per annullare completamente la dimensione della profondità della vita umana e risparmiandone solo la componente lineare e unidirezionale dell’azione e degli episodi che si susseguono.
Spesso e volentieri il tipo di narrazione che amiamo oggi è quello che ci proietta in una realtà più emozionante e frenetica della nostra, in cui le percezioni vengono amplificate mentre le attese (quei tempi morti in cui la vita diventa una scelta e non una passiva accettazione degli eventi) solo accennate.
Ciò che Joyce (e con lui tutti i romanzieri che si sono dedicati a cogliere e raccontare momenti brevi e apparentemente insignificanti della realtà) aveva invece cercato di dimostrare era che anche nell’inazione la vita procede e si rigenera, in un tempo interiore decisamente dilatato rispetto alla fretta con cui oggi siamo abituati a leggere gli eventi, e che proprio nella dimensione della profondità, in cui siamo costretti ad esercitare la pazienza e la costanza, impariamo a conoscerci.
Questo tempo sta in realtà riportando alla luce dove sta la vera grandezza della vita. Siamo rimasti “vittime” di un racconto vasto e rumoroso, che ci ha spaventati e privati di buona parte delle nostre libertà; ma è curioso il fatto che le storie che in questo scenario stanno sostenendo l’Italia siano quelle vissute in silenzio da coloro che hanno continuato ad operare quasi senza fare rumore, nelle fabbriche rimaste aperte per sopperire alle esigenze dei cittadini, negli ospedali e in tutti gli ambiti del volontariato attivi in questi mesi.
Uomini e donne che l’opinione pubblica per prima definisce “eroici”, ma di un’eroicità che persiste solo perché ha imparato ad esprimersi nella quotidianità e nella limitatezza umana, senza lasciarsi distrarre dalla grandezza solo apparente e spettacolare, prima tanto esaltata, di cui ora vediamo chiaramente l’inconsistenza.