(Fabrizio Dassano)
Dopo l’epoca classica romana, il nostro territorio ha conosciuto un lungo periodo medioevale caratterizzato dall’incastellamento del signore feudale che raggiunse il suo apice con la crisi del potere carolingio e la frammentazione politico militare del territorio. Le opera pubbliche come i teatri e gli anfiteatri, i ponti o il mantenimento delle strade, caddero nel dimenticatoio per le mutate condizioni di vita, ad esclusione della costruzione del Naviglio di Ivrea nel 1468, canale navigabile terminato da Jolanda di Savoia per collegare la città di Ivrea a quella di Vercelli e per irrigare le campagne del Vercellese (vedi Il Risveglio Popolare del 18/3/2021).
Anche il Rinascimento e il Barocco consacrarono l’architettura monumentale alle aspettative e ai bisogni della classe dirigente. L’unica componente “pubblica” era costituita dalle cinte murarie difensive delle città, delle cittadine, dei ricetti che insieme all’architettura sacra rappresentano l’esempio più diffuso capillarmente.
La più grande opera monumentale di Ivrea oggi è la sua cinta muraria sopravvissuta nel tempo quanto dimenticata. Realizzata smontando l’anfiteatro e il teatro romano di Ivrea, ma cessata l’esigenza che l’aveva generata, versa oggi in stato di oblio.
Ai confini del Canavese vi è un’opera pubblica ancora utilizzata quotidianamente che colpisce per la sua monumentalità. Potrebbe benissimo stare sulla Senna a Parigi, ma se non ce ne accorgiamo quasi, transitando sulla strada provinciale n. 11 tra Rondis-sone e Cigliano, è sufficiente fermare l’auto in una piazzola alla testa del ponte e ridiscendere la rampa sterrata per vedere il ponte monumentale in tutto il suo splendore dalle rive della Dora Baltea e renderci conto della grandezza dell’opera nello stile neoclassico. Si avvicina alle dimensioni del pons major romano di Eporedia, eretto nel I secolo dopo Cristo e composto da 10 arcate con uno sviluppo di 150 metri, crollato in seguito ad una alluvione non si sa quando.
Il ponte napoleonico di Rondis-sone è anch’esso interamente in pietra da taglio, le arcate sono 7 da 20 metri di luce, per uno sviluppo di ben 164 metri per una larghezza della carreggiata di 9 metri. Le arcate sono ribassate au tiers a profilo policentrico a 11 metri, con il metodo di tracciamento medesimo a quello del ponte di Torino, conforme a quello stabilito da Perronet per il ponte sulla Senna a Neully. Il piano stradale è perfettamente orizzontale. Il rapporto tra lo spessore delle pile e luce delle arcate è di un quinto. Come quello di Torino, ha i corsi delle grandi lastre di pietra en grand appareil, legati ai cunei delle volte secondo la disposizione a bandeaux à crosettes. Lo storico Luciano Re scrisse nella “Storia di Torino” dell’Einaudi: “Il ponte in pietra sulla Dora Baltea a Rondis-sone è la maggior opera d’arte dell’allestimento napoleonico del tratto francese della medesima Route d’Italie”.
Già nel 1812 se ne parlava a Parigi nel libro: “Travaux des ponts-et-chaussées depuis 1800, ou Tableau des constructions neuves faites sous le règne de Napoléon Ier, en routes, ponts, canaux, et des travaux entrepris pour la navigation fluviale, les dessèchemens, les ports de commerce, etc.” redatto da Courtin, segretario generale della direzione generale dei Ponts et Chaussés in cui riporta il nome dell’ingegnere capo che realizzò l’opera, Alexandre Cavenne e che in corso d’opera modificò qualche particolare del progetto steso dall’ingegnere Jean François Mariés nel 1809. Su ordine di Napoleone, il Prefetto Auguste Jubé del Diparti-mento della Dora fece iniziare la costruzione dell’imponente e maestoso ponte di pietra. I lavori proseguirono dopo la caduta di Bonaparte e il ponte fu aperto al traffico nel 1818. Fu adottata una struttura integralmente in pietra da taglio.
Il ponte aveva preso il posto del secondo porto natante del conte Valperga di Mazzè. Nei secoli precedenti era noto ai cartografi come il “Porto di Rivarotta” ma entrato negli interessi francesi della Route Nationale 13 Paris – Milan fu soppiantato dal ponte. Con il ritorno di Vittorio Emanuele I, i pedaggi furono ripristinati a favore del conte Valperga di Mazzè ma, con il nuovo regno di Carlo Felice, le cose cambiarono: il ponte assoggettato alle contribuzioni prediali e ai carichi locali secondo l’editto di Vittorio Emanuele I del 14 dicembre 1818, fu alienato all’allibramento nel gennaio 1826 perché serviva la strada Reale e non poteva essere affidato ad un nobile locale. Fu così abolito il pedaggio e venne cancellato dai ruoli retributivi del regno di Sardegna.
Dopo di allora – se si esclude un colpo di mano partigiano tra il 1944 e il 1945 –, l’oblio cadde sul ponte e solo nell’estate del 1997 tornò alla ribalta: durante i lavori dei manutenzione e consolidamento del ponte, sotto il manto di asfalto vennero alla luce oltre 100 chilogrammi di tritolo che bloccarono i lavori per un mese. Rimosso, l’esplosivo venne fatto brillare in aperta campagna dagli artificieri dei Carabinieri. Dopo l’azione degli addetti sminatori durata molte ore per la rimozione delle macerie, sotto il manto stradale recuperarono tutti i candelotti di tritolo e dinamite ancora perfettamente efficienti a distanza di oltre cinquant’anni. Il ponte era stato minato il 1° maggio del 1945 dalle truppe tedesche in ritirata. Altro ponte simile e importante, voluto da Napoleone Bonaparte è l’attuale ponte di Torino in pietra, oggi Vittorio Emanuele I.
La posa della prima pietra del ponte avvenne nel novembre 1810, alla presenza del principe Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte e allora Governatore napoleonico in Piemonte: murate nel pilastro centrale del ponte furono riposte 88 fra monete e medaglie commemorative delle campagne napoleoniche ed un metro in argento. I lavori furono eseguiti dall’ingegnere francese Charles Mallet e dal piemontese Pellegrini, su progetto di Claude La Ramée Pertinchamp, a cinque arcate, lungo 150 metri e largo 12,9 metri, quindi terminato nel 1813.
Un anno dopo, con la fine dell’occupazione francese e con il ritorno dei Savoia in città, fu proposto di abbatterlo, percepito da molti come il simbolo della passata occupazione, ma il re Vittorio Emanuele I si oppose all’idea e, sia il ponte che la grande Piazza Vittorio, già Piazza d’Armi, gli furono entrambi titolati. Nello stesso anno del suo ritorno nel 1814, fu decisa anche la costruzione della piazzetta e della chiesa della Gran Madre di Dio, dal lato opposto al ponte, in quartiere Borgo Po, edificio, quest’ultimo, realizzato però soltanto nel 1831.