(Fabrizio Dassano)
Ieri sono andato a fare la spesa nel piccolo supermercato del mio quartiere.
Mi sono infilato i guanti e la mascherina in auto, ormai trasformata in centro di disinfezione mobile con mascherine di riserva, guanti di lattice, gel per le mani, spruzzino dell’amuchina e anche una maschera antigas della “Bundeswehr” nella sua custodia metallica cilindrica grigioverde. Con il fatto che sono ormai due mesi che non mi muovo e praticamente non ho più caricato in auto nessuno, una vistosa ragnatela è nata tra il cruscotto e il sedile lato passeggero. Tutto sommato non mi dispiace perché sarà utile per catturare le mosche che entreranno prossimamente nella mia auto.
Dicevo che sono andato a fare la spesa. Un vistoso cartello obbliga i clienti ad entrare muniti di mascherina e guanti. In effetti, entrando, tutti eravamo agghindati così. Verso la fine, quando ero ormai alla cassa nel disperato tentativo di pagare il conto afferrando la banconota nel portafogli con i guanti di lattice – operazione che mi provoca sempre la secchezza delle fauci (xerostomia isterica) –, una banconista tutta inviperita giunge davanti alla cassiera riprendendola sonoramente ad alta voce perché aveva fatto entrare una persona senza maschera. La cassiera si giustifica dicendo che purtroppo non l’aveva visto, l’untore.
Subito tra noi clienti ci siamo guardati con lo sguardo inquisitore: uno scanner visuale istantaneo tra noi in zona cassa fuga il velenoso sospetto reciproco. Eppure sappiamo che l’untore è tra noi.
Ma in quel mentre sbuca dal corridoio della corsia “pasta e riso, farine e polenta, pelati, passate e sughi” e arriva alla cassa proprio lui, l’untore. Un signore avanti con gli anni vestito da finto giovane. Ha uno scooter parcheggiato fuori sul lato ingressi e un casco appoggiato sul bauletto che ricorda quello di Capitan America. Rimbombano ancora le parole di condanna della banconista.
Tutti gli piantiamo gli occhi addosso come il peggior tribunale dell’inquisizione spagnola. Lui a quel punto si mette a gridare: “Cosa?! Cosa?!”. Il reo non ha la maschera e si tiene una mano sulla bocca e sul naso, mani che calzano impunemente ridicoli guanti monouso appena sottratti al bancone della frutta e verdura. Ormai l’untore è allo scoperto.
Ma a quel punto – dopo aver febbrilmente cercato di afferrare il resto, composto da almeno diciassette monetine, con i guanti di lattice sul metallo del pianale della spesa che sembrano incollate con l’attak, e dopo averle sbrigativamente gettate tutte nella medesima busta della spesa per evitare l’incubo della riapertura del portafogli, scomparto monetine – fuggo.
Guadagno l’esterno, finalmente libero, all’aperto e al sicuro! Mi rifugio sull’auto, mi chiudo dentro con la chiusura centralizzata, abbasso i parasole del parabrezza e finalmente mi irroro di amuchina, tirando un respiro di sollievo.
Torno a casa. Davanti alla porta d’ingresso del mio palazzo, le mani impacciate dalle pesanti borse mi costringono a innaturali le contorsioni per trovare le chiavi: impresa normalmente banale ma che si fa titanica, quando si è privati del tatto. Già, perché mai come di questi tempi da guanti di lattice si è capita l’importanza del tatto!
Mi ritrovo in mano nell’ordine: una biro, una pen-drive, una scheda SD, due volte le stesse chiavi dell’auto appena riposte, un accendino, gli occhiali da sole che mi intralciano da bestia mentre i manici della busta della spesa si sono fatti sottilissimi nel mio dimenarmi ed iniziano a tagliarmi i polsi. Non voglio morire con i polsi recisi dalle borse della spesa!
Poi come un dono della Provvidenza, esce un condomino che mi apre sorridente il portoncino. Mi allontano ossequioso con mille salamelecchi per farlo passare a distanza di sicurezza, sapendo che dovrò ripetere la tragica scena davanti al portoncino del mio alloggio al primo piano, perché nel frattempo le chiavi non le ho ancora trovate. Ma a quel punto nell’androne del condominio intravedo nella buca delle lettere di vetro un foglietto piegato in due.
Entrato finalmente in appartamento, vado subito a posare la spesa, immediatamente dopo metto i polsi sotto il rubinetto dell’acqua fredda in cerca di sollievo e torno infine a concentrarmi sul pizzino, nella speranza sia una missiva del mio ex vicino fuggito in campagna oltre due mesi fa. Afferro il biglietto, riconosco la calligrafia. È proprio lui. Quindi è vivo ma evidentemente ormai insano di mente mi scrive due frasi, o meglio, due indovinelli:
“Mio padre fa il cantante, mia madre è balbuziente. Il mio vestito è bianco e il mio cuore d’oro. Chi sono?”
“Tutti lo possono aprire, ma nessuno lo sa chiudere. Che cos’è?”