Nell’area geografica prealpina canavesana la Valchiusella non si differenzia molto dalle altre zone per i detti e i modi di dire usati e che le sono propri, se non per la pronuncia e alcuni fonemi che nei dialetti dei suoi paesi le appartengono.

Innanzitutto occorre fare un distinguo tra i detti e i modi di dire che sono pressappoco la medesima cosa e i proverbi. Mentre i proverbi sono più strettamente legati alla saggezza popolare e possono costituire la parte saliente di un discorso o il suo incipit, i modi di dire sono più descrittivi, esemplificativi e analogici e non creano mai una vera e propria frase di senso compiuto come il proverbio.

Un proverbio può rappresentare una norma o una lezione comportamentale, mentre il detto non assurge in nessuna occasione ad un così alto livello, ma è più simile ad una esclamazione a un motto che si utilizza per descrivere un qualcosa, un’azione, ed è sovente un’analogia.

Prima di fare un excursus tra alcuni detti e modi di dire, potrà essere interessante notare che i dialetti dei paesi valchiusellesi hanno origine dal ceppo piemontese occidentale canavesano e presentano temi fonetici concordi con il franco provenzale, inoltre ricorrono sovente all’apocope, ossia alla caduta delle vocali atone o al loro indebolimento. Singolarità si trovano nella zona di Vico e Meugliano, dove il dialetto dispone di un particolare fonema per la vocale A chiusissima, quasi a voler sembrare un sordo brontolio, oppure nella zona di Brosso dove esiste una R arrotolata in bocca, quasi all’inglese e l’elenco potrebbe continuare.

Iniziando a scrutare i detti e modi di dire va subito precisato che con il miscuglio dei dialetti locali con parlate derivanti da altre zone della regione e soprattutto con l’italiano, essi sono quasi totalmente caduti in disuso. Uno dei più bizzarri modi di dire è certamente LA VEJA SALASSA. La veja salassa è un’espressione tipica della zona di Rueglio e nella sua interezza suona così: La veja salassa a sort a balar (letteralmente: La vecchia salassa esce a ballare) per indicare un tipico fenomeno dei pomeriggi estivi in cui la calura rende l’aria talmente umida e incandescente che sembra quasi che essa vibri sulla testa in piccole onde, come avviene, per esemplificare, sulle acque stagne increspate dal vento.

La veja salassa si identifica quasi con la natura stessa – la natura è madre, i salassi sono i nostri progenitori – e infatti i celti attribuivano alla natura una sembianza femminile la quale nel corso dell’anno era sottoposta ad un progressivo invecchiamento dovuto alla fatica, ma che in seguito ad alcuni sacrifici di sangue, rinvigoriva nuovamente rinascendo dalle proprie ceneri, similmente all’araba fenice.

Nell’espressione si fa riferimento alla versione giovane della natura pur definendola allegoricamente come “vecchia”, poiché l’estate con i suoi ardori rappresenta, con la trasformazione della natura stessa, il preludio al suo invecchiamento che si determinerà con il progressivo esaurirsi delle sue forze. Tutto suona un poco come un’incoerenza e questo ci rimanda alla figura mitologica dell’Uomo selvatico, che in Valchiusella è definito comunemente Urciat. Egli era allegro quando pioveva perché pensava che poi sarebbe arrivato il sole e triste quando c’era bel tempo poiché immaginava in seguito l’arrivo della pioggia o della neve; era allegro in inverno immaginando che poi sarebbero giunti la luce e il caldo e mesto in estate vagheggiando l’arrivo del buio e del freddo. Ciò riflette altresì, in maniera perspicua, il contraddittorio carattere valchiusellese.

Giungiamo così al rapporto con la morte che è sicuramente confidenziale, dato che essa è definita Catlinna djj coste sëcche (Caterina dalle costole secche. Catlinna con due N, la prima E della parola secche molto chiusa, come il terzo fonema della U francese). Va detto che in quasi tutto il Piemonte la morte è denominata Magna Catlina (zia Caterina, con una N sola).
La Nera Signora, ha in ogni appellativo popolare un misto di reverenza e scaramanzia come nel Terdes da Tarok (il tredici del gioco di carte dei Tarocchi) o il Bust rigà (busto rigato). Chiamarla affettuosamente Caterina, un nome comunissimo presente un tempo in tutte le famiglie, voleva dire esorcizzare la paura che incute la sorte ignota a cui ci conduce la morte per ricondurla a un qualcosa o qualcuno di domestico, quotidiano, conosciuto. E, in effetti, tra carestie, guerre, epidemie e sciagure essa era davvero parte delle cose di ogni giorno, sempre presente com’era tra la gente. Le popolazioni montane, incluse quelle valchiusellesi, avevano diversi bizzarri rituali per allontanare la morte, ma la paziente zia Caterina, magra, secca, diafana, attendeva ognora i suoi amati nipoti e non ne dimenticava nessuno…

Catlina, Catlinna o anche Talina (diminutivo di Natalina, altro nome comunissimo) è anche protagonista di una simpatica leggenda la quale narra che la vecchia Catlinna vivesse in una malga. Il suo pero, un albero maestoso, era per lei un orgoglio ed in autunno si riempiva di frutti saporiti. Tra gli abitanti della vicina pianura, i quali si recavano sui monti a raccogliere funghi oppure a cacciare, si sparse quindi la voce di quello splendido albero, e divenne abitudine dei più disonesti sottrarre le pere a Catlinna.

La donna inizialmente tenne testa ai furti, scacciando i malintenzionati con un bastone di nocciolo, ma da anziana non seppe più come reagire. Una notte, dopo l’ennesimo furto, la donna decise di rivolgersi dove sapeva lei… Fu così che scese in borgata, a cercare la Masca Neta. Neta conosceva a priori i problemi della vecchia, e appena la vide nel cortile balzò in piedi, prese l’occorrente, e si recò a casa di Catlinna, pronta a compiere un prodigioso incantesimo. Messasi di fronte al pero, la Masca cominciò a girarci intorno sussurrando: “Chi ca vein a robar i prus ca restõ si tacà” (chi viene a rubare le pere, resti qui attaccato).

La mattina successiva la Morte, mentre controllava l’elenco delle visite quotidiane, scorse il nome Catlinna. All’alba si diresse verso la valle dove ella viveva e bussò alla sua porta dicendo: “Catlinna fa fagot?”. Catlinna rispose serafica: “Son si, son si!”. La Morte sedette al tavolo della vecchia, concedendole il tempo di accommiatarsi dalla sua casa e dalle cose a lei care. D’un tratto, guardando il pero, l’astuta vecchietta disse: “Madama Morte, mi piacerebbe mangiare ancora un paio di pere prima di partire, ma non riesco più ad arrivarci. Voi che siete magra e alta, potreste raccoglierle per me?”. La Morte, che fa un mestiere crudele ma conosce la compassione, decise di accontentare Catlinna. Accostandosi al pero, ella si ritrovò con le mani appiccicate all’albero, e quando puntò i piedi contro il tronco per cercare di liberarsi pure quelli rimasero attaccati alla corteccia. A quel punto la Morte si rese conto di essere caduta nella trappola della furba Catlinna! La Nera Signora impiegò un giorno intero ad averla vinta e a liberarsi dalla terribile colla, col risultato che molte persone ebbero in dono, grazie a Catlinna, un giorno di vita in più.
La Morte fu talmente ammirata dall’astuzia di Catlinna che, conducendola con sé, le chiese di poterne assumere il nome.

Passando ad argomenti più ameni, l’attività frenetica che quasi tutti noi abbiamo nell’attuale società, ma che non era certo sconosciuta anche alle passate generazioni, seppur con ritmi meno incalzanti e con occupazioni meno vacue, è detto ESSE ‘T BRANDO. L’implicita metafora contenuta in questo modo di dire fa riferimento alla radice celta presente ancora oggi nella lingua olandese “brand” significante incendio – il fuoco della frenesia – e che ritroviamo nel termine dialettale “branda” e in quello inglese “brandy” che stanno entrambi ad indicare l’acquavite.
Branda ha quindi un significato traslato di spada scintillante al sole, la stessa che adoperarono i nostri lontani antenati come emblema della scoperta dei metalli nel suolo.
Tutto sembra ricondurci a Erodoto, il quale scriveva che gli Sciiti veneravano un dio della guerra rappresentato sotto forma di spada lucente.

Molta sarebbe la letteratura da citare, ma ci limiteremo a prendere ad esempio l’eroe celto Cuchullain, protagonista di favolose saghe, la cui figura si potrebbe paragonare al greco Achille ma anche ad Ercole, in cui alcuni studiosi vedono la personificazione del sole, poiché si diceva che quando era nel pieno della sua potenza nessuno potesse fissarlo a lungo.
Nell’espressione Esse ‘t brando (essere in “brando”) usata in vari modi: “A t’è semper ‘t brando” “A t’è torna ‘t brando” (sei sempre …, sei nuovamente …) il dinamismo è associato quindi alla spada, poiché entrambi fanno scintille, e alla luce.
Contrariamente, chi fa poco ed è sempre a spasso si dice vada in “pasquer”. Pasquere o Pasquaro è una località montana della Valchiusella, un alpeggio, ed è anche una frazione di Rivarolo Canavese, nonché un toponimo presente in varie località piemontesi ed ha una chiara origine dal verbo pasquare, ossia trascorrere, festeggiare la Pasqua.
Per terminare il più colorito e articolato dei modi di dire è sicuramente OH, LA MATERNA CU GEST!

Da questo motto, che potrebbe assurgere al rango di epifonema (esclamazione che conclude retoricamente un discorso), ci appare molto chiara e ben delineata la parte più recondita del nostro bagaglio culturale, siccome essa ci richiama alla più antica entità protettrice, quella materna, intesa come la comune madre di ognuno, ossia la terra.

È un intercalare che denota tutto lo sgomento presente in chi lo usa, tutta la sua impotenza di fronte ad un fatto più grande di lui. Sopraffatti da un qualcosa che ci sfugge di mano, la nostra natura ci porta a rifugiarci nelle braccia materne, in questo caso quelle della terra, da cui traiamo sostentamento e che ci accoglie nelle sue viscere una volta che abbiamo cessato di vivere.
Con l’avvento del cristianesimo trovammo questa materna protezione nelle braccia della Madre Celeste, cui dedicammo tanti templi ed edicole votive.

Oh, la materna co gest!” potremmo esclamare ponendoci di fronte al complesso momento storico che ci troviamo a vivere, e certo dovremmo andare piuttosto a ritroso nel tempo per scoprire le origini di tale espressione, ma questa volta non fino ai nostri progenitori celti, bensì un briciolo più vicino come spazio temporale; ai nostri antenati latini. Nella parte finale, infatti, si richiama indubitabilmente la locuzione “Quid gestum esset”, ossia la citazione di Orazio: “Frustra vos rogavi quid gestum esset” (Ho chiesto invano cosa fosse successo).

Per tale motivo se proprio volessimo azzardarci a parafrasare in italiano questa espressione, potremmo esprimerla così: “Oh, mamma mia, cos’è successo!
Essa può essere usata anche come esclamazione di autocommiserazione “Oh mi, cu gest!” (Oi me, cosa mi succede!), al cui fianco si associa “Oh mi, cu vegnist!” (Oi me, cosa sono diventato/a), oppure “Oh mi, cu strumeint!” (Oi me, che anrese!)
Certo è che il fascino di questo e degli altri modi di dire ci colpisce ancora oggi.