(Susanna Porrino)
La scomparsa di Carla Fracci ci lascia il ricordo di una vita spesa al servizio dell’arte e del perfezionamento delle sue forme; la bellezza coltivata attraverso la fatica e il lavoro ha rappresentato uno dei doni più grandi che questa donna, come altri prima di lei, ci potesse trasmettere, insieme alla consapevolezza che l’arte esplosiva e irrompente che oggi conosciamo non è l’unica modalità possibile di raccontare ed emozionare l’uomo.
Gli uomini del passato non avevano più risposte di quelle che noi abbiamo oggi; in un mondo dominato dalla guerra, dalla povertà e dalla fame, non avevano ragione di nutrire speranze o aspettative più grandi e meravigliose delle nostre. Eppure coltivavano in sé il desiderio di creare in mezzo alla distruzione; raccontavano attraverso l’arte non il proprio rifiuto della vita, ma le storie di uomini che si muovevano in un universo in cui l’individuo era solo una parte in continua e necessaria relazione con ciò che lo circondava.
C’è invece una rabbia e un vuoto prorompente nell’arte a cui oggi siamo abituati: una letteratura che fatica a scendere in profondità, una produzione musicale che non riesce a resistere allo scorrere degli anni, un’arte visiva che cerca di rompere i limiti senza costruirne di nuovi. Le passioni umane emergono, ma si limitano ad esplodere senza venire sublimate e raffinate dall’arte. Esse sono espressione della generazione in cui si sviluppano, ma rimangono imprigionate nel momento e vengono dimenticate, perché non possono e non vogliono crescere.
Coloro che hanno lasciato il segno nel passato sono entrati nella storia silenziosamente, lasciandosi plasmare dal dolore e dalla fatica; hanno accolto l’arte ma hanno accolto anche la vita, rendendola occasione di nascita e novità, anziché di distruzione. Ad attirare e rimanere viva non è la fuga, che si esprime in una violenza fine a sé stessa, ma la capacità di descrivere l’esistenza con l’entusiasmo di chi sa abbracciarne anche gli aspetti più problematici.
L’arte nasce come forma di speranza, perché il desiderio di lasciarsi alle spalle una parte di sé implica l’idea che il futuro sia degno di accoglierla; la fame di successo, per quanto probabilmente parte integrante dell’essere umano, quando si carica di rabbia e voracità diventa una forma di alienazione che è destinata a consumarsi velocemente come è nata.
È difficile pensare di educare nuovamente una società alla pazienza e alla capacità di raffinare i sentimenti prima di trasformarli in arte, in una realtà in cui il successo viene presentato come una risposta veloce e alla portata di tutti. Ma queste figure ci ricordano che il reale premio non è una soddisfazione rapida ed estemporanea, ma una vita trasformata in arte; la meta non è la fama, ma la capacità di raccontarsi così profonda da diventare un oggetto irresistibile di ammirazione da parte di chi si riconosce in noi.