Un ultimo, struggente canto per salutare Thérèse
(Alessandro Crotta)
Vi fu una breve pausa durante la quale don Aristide volse lo sguardo all’affollatissima assemblea da cui non gli fu difficile cogliere i segni dello stupore. Poco dopo con un gesto invitò Rita Borghi ad avvicinarsi e dare inizio alla lettura.
Rita uscì dal banco della prima fila in cui si trovava, fece qualche passo verso la balaustra, si voltò verso l’assemblea poi con voce sommessa, resa quasi impercettibile dal dolore e da quell’insieme di cose più grandi di lei, con voce velata dalle lacrime iniziò a leggere il foglietto che aveva tra le mani: “O ma verda, ma bella Vallaye, o ma terra patria di viù, / O campagne si bien solleillaye, ton cachè l’è incò ci d’atre coù; / No tzanten, din lo coeur n’en la flamma, n’en l’amour di paì, n’en la via, / Lo Bon Dzeu, lo terroir, notra mamma, son la force de no valdoten!” (“O mia verde bella vallata, terra e patria dei miei avi, / campi ben soleggiati, la vostra impronta è rimasta quella dei tempi andati; / Con il cuore e con passione, noi cantiamo l’amore per il villaggio e la vita, per il Buon Dio, per la nostra terra e nostra madre che sono la forza (gli ideali) di noi valdostani”).
Su molte gote, e non solo femminili, evidenti apparvero i segni della partecipazione e commozione. Lentamente don Aristide proseguì il servizio divino e lo concluse con un “… te sùpplices pro ànima fàmulae tuae Théresè quam hòdie de hoc saeculo migràre… Per Christum Dòminum nostrum”.
Al termine della cerimonia in chiesa il corteo riprese il cammino verso levante, verso il Cimitero. Alle preghiere dei partecipanti facevano eco, quasi fosse un maldestro addio, lo sferragliare delle serrande dei negozi le quali, come espressione di rispetto nei confronti del servizio funebre, venivano abbassate a metà prima del sopraggiungere del corteo. Anche i frettolosi che si trovavano lungo il cammino si arrestavano un attimo e al passaggio del “caruss” (carro funebre) si facevano il segno della croce; era il loro modo per dire addio.
La guardia comunale di servizio all’incrocio portò la mano destra alla visiera e salutò la defunta. Dietro la guardia, due carrettieri con il berretto in mano – pazienti come i loro cavalli – attendevano il passaggio del corteo, prima di riprendere il cammino con i loro “carton” (sorta di carro a due ruote). Si arrivò al Cimitero. Il feretro dal carro funebre venne trasferito su un apposito carrello; sospinto dall’inserviente e seguito dal corteo ancora particolarmente numeroso, si avviò lungo il viale principale verso il luogo dove la salma sarebbe stata tumulata.
L’irregolare scalpiccio dei passi sulla ghiaia del viale e il fastidioso cigolio di una delle ruote del carrello che pareva un lamento, erano gli unici suoni ad inserirsi e rompere il silenzio. Frattanto, a destra come a sinistra, era il susseguirsi di lapidi e tumuli disposti ai lati dei viali a proporci, con nomi e date, altre Marianin e altri monsù Michél. Erano nomi la cui familiarità casualmente propostaci, avrebbe assunto, attraverso l’inevitabilità del fato a frequentare tale luogo, altri più sottili significati e da questi, chissà, stimolare altre riflessioni.
A quegli echi e a quei richiami di “Divina Maestà” ispirati dalla preghiera per i morti recitata dal reverendo, seguì, per la defunta, l’abbraccio affettuoso della sua Valle con il canto “Montagnes Valdotaines”: “Montagnes Valdotaines, vous êtes mes amours…”.
Più che al significato preciso delle parole, che pochi capivano, fu la straordinaria, delicata, struggente bellezza dell’esecuzione a unire nel canto quel magico insieme di silenzi, di presenti e trapassati i quali, in un crescendo di emozioni, culminarono – in quella tarda serata d’autunno – con le parole d’addio: “Thérèse dort, ne la réveillons pas. / Déjà dans la Vallée tout est silencieux, / On n’entend plus dans la nuit sombre / que le torrent mujir dans l’ombre. / Oh montagnards, oh montagnards / chantez plus bas, chantez plus bas / Thérèse dort, Thérèse dort, ne la réveillons pas”.
In quel canto eseguito dalla minuscola Chorale di Fénis, si trovarono armoniosamente infusi, con la bellezza e la dolcezza dell’esecuzione, sensazioni che posero l’accento sulla magia della vita nella ricchezza degli affetti, anziché sull’ineluttabilità della morte.
Accompagnati dai nostri pensieri e dallo scalpiccio dei nostri passi sulla ghiaia, con un sussurrato “arvese” (arrivederci), tra brusii, silenzi e commozioni, lasciammo Thérèse, Michél d’Ambois e altri che era ormai sera.
(4 – fine)