MEMORIE D’ALTRI TEMPI IN UN RACCONTO D’AMBIENTAZIONE VALDOSTANA

(Alessandro Crotta)

Accompagnato da un insieme di giaculatorie e brusii, dei quali alcuni attinenti al servizio funebre, altri, come quelli sfocianti nella parte terminale del corteo, su tutt’altri argomenti, con un percorso da ponente a levante, questo si snodò lungo la via principale della città sino a raggiungere la chiesa parrocchiale. In chiesa, in onore alle origini valdostane di madame Blanchérèt, e di riguardo verso quella parte di assemblea dalle stesse origini, molte delle preghiere furono recitate in patois e in francese, come in francese furono cantati alcuni inni e tra questi il bellissimo “Tu es là, au coeur de nos vies… / Dans le secret de nos tendresses / Tu es là, dans les matins de nos promesses, tu es là”.

Inaspettata in quella forma, da don Aristide ci fu un’elocuzione durante la quale, rivolgendosi principalmente ai familiari, illustrò il legame dell’assemblea con la defunta.

“Se di fronte alla morte sensazioni d’impotenza e smarrimento sembrano, fratelli e amici miei, prevalere sulla ragione, allora vorrei che quell’affetto profondo che fu per tutti voi legame di vita, sia oggi e sempre legame d’amore. Nel ricordo di nostra sorella Teresa-Marianin vorrei”, rivolgendosi soprattutto verso i primi banchi di sinistra dov’erano sistemati i Borghi e i Blanchérèt, “che il vostro affetto determinasse in voi e in noi quel senso di accettazione della vita quale essa è; con la stessa accettazione, o, se volete, con lo stesso spirito con cui si accettano le giornate di pioggia e di cielo sereno. Questo, cari parrocchiani, è lo spirito con cui dovremmo affrontare con serenità questo modo di essere ciò che siamo”.

Dopo un breve sguardo da destra a sinistra, volto ad assicurarsi che l’eterogenea assemblea seguisse quell’orazione dai contenuti piuttosto insoliti, – un don Aristide così in borgata non l’aveva mai sentito nessuno – il sacerdote proseguì con l’omelia.

“La morte di un nostro caro ci addolora sempre. La morte, cari fratelli e sorelle, ha in sé, credo, la stessa misteriosità della vita; vita della quale percepiamo, forse, solo alcuni aspetti. La morte, come la vita”, enfatizzò il reverendo osservando lentamente l’assemblea, “è un tutt’uno con il nostro essere uomini, e in quanto tali possedere, pur con inevitabili lacune e dubbi con i quali spesso dobbiamo confrontarci e convivere, anche quelle straordinarie capacità di amare e di sorridere”.

Dopo una breve pausa, nel corso della quale rumorosamente si soffiò il naso, don Aristide volse lo sguardo sui primi banchi: sulla figlia Rosa, sul nipote Federico, su Lella – la maggiore tra le nipoti -, ma soprattutto sui giovanissimi della famiglia: Rita e Stefano. Riprese l’orazione esemplificando – come di consueto in dialetto – quei concetti precedentemente espressi i quali, in lingua, avrebbero potuto dare adito a non poche incomprensioni. D’altro canto, era la stessa insolita eterogeneità dell’assemblea a richiedergli questo impegno, e il suo carattere e la sua coerenza di sacerdote, ad esaudirlo.

Continuò. “Il vostro, cari fratelli e sorelle, fu un legame straordinariamente ricco di affetti e di umanità senza limiti di spazio, né di tempo. La testimonianza di questo straordinario legame alla vostra Mamy, e mi rivolgo innanzitutto a voi della famiglia, è espresso dal vostro dolore; dal dolore dei figli, Rosa e Lucy, a quello dei nipoti per i quali riservava, come voi ben sapete, un affetto particolare”.

Dopo una pausa lunga quanto un’Ave Maria, con voce più sommessa don Aristide riprese l’orazione, e la riprese con un tema a lui particolarmente caro: quello della vita e della morte.

“Compagna inseparabile della stessa vita, la morte offre all’uomo una più compiuta sacralità, quella che si perpetua”, disse volgendo lo sguardo verso i Borghi e i Blanchérèt, “non solo nella vostra vita ma, con gli stessi affetti”, e poi indirizzando lo sguardo verso i nipoti della Marianin “anche in quella dei vostri figli e se il buon Dio vorrà, nei figli dei loro figli: così per l’eternità”.

Dopo una breve pausa don Aristide riprese con la stessa partecipazione il tema. “Quindi cari fratelli e sorelle, è proprio nel ricordo di ciò che fu la sua straordinaria capacità di amare che è poi, come voi ben sapete, la nostra stessa capacità, che fiduciosi e riconoscenti ci inchiniamo all’amore infinito del Signore. La vita non è forse – come ripeteva spesso Michele Borghi d’Ambois – un meraviglioso intervallo tra due eternità?”.

Dopo una pausa che pareva senza fine, don Aristide si avvicinò alla balaustra e con modi meno formali riprese. “Quale legame verso la terra d’origine di nostra sorella Thérèse – proseguì ancora don Aristide – la nostra Rita leggerà per la sua nonna il ritornello del canto ‘Ma Verda Vallaye’ (Mia verde vallata); un canto, miei cari fratelli e sorelle, – proseguì don Aristide superandosi nell’eloquio – che fu sempre tanto caro alla nostra sorella Marianin; un canto nel quale, sulle note della nostalgia vi sono infusi, in un gioco di sovrapposizioni e di certezze, i temi dell’amore.

L’amore verso Dio e l’amore verso la propria terra, la propria gente e verso la propria madre”.

(3 – continua)