(Cristina Terribili)

Tra le cose che il Covid si è portato via c’è anche il contatto fisico. Il distanziamento personale è certo uno dei modi più sicuri per evitare il contagio. Abbiamo perso tanti anziani e abbiamo visto operatori sanitari trincerarsi con gli ospiti delle RSA per evitare contagi.

Ma il virus, appena riesce a trovare uno spiraglio per diffondersi, porta via con sé tutto, tutti, troppo velocemente. Gli anziani fragili, quelli con demenze, con l’Alzheimer, coloro che hanno più difficoltà a prendersi cura di se stessi, a mettere in atto comportamenti a salvaguardia della propria incolumità, che si dimenticano di mettere la mascherina, quelli che non vogliono sentire l’appiccicoso gel sulle mani, che non possono fare a meno di portare le mani alla bocca o che si passano il dorso della mano vicino gli occhi, che diventano sempre più umidi.

Per queste persone con la storia della loro vita frammentata, in cui i ricordi si mescolano un po’ confusi nella mente, che ti guardano con uno sguardo lontano, che perdono i confini del loro corpo e dello spazio intorno, per loro che così isolati perdono anche quell’ultima sottile riserva di capacità… ecco, per loro nascono le stanze degli abbracci.

Per loro e per chi li ama: per chi ha dovuto patire la sofferenza di una lontananza fisica consapevole che quella cognitiva era già lontana, per chi sa di non essere neppure riconosciuto, ma che potrà far ritrovare la sensazione di calore in un abbraccio. La camera degli abbracci è per poter ritornare a stringere le mani, per far incrociare almeno gli occhi, per far sì che si possa risvegliare quella memoria corporea, quella sensazione di protezione che solo un abbraccio può dare.

Perché quando sai che l’altro vive in un mondo distante, l’unico richiamo è quello di una parola sussurrata all’orecchio, di una carezza su una guancia, di un dondolio del corpo. I nostri cari già fragili, con la pandemia lo sono diventati ancora di più, ancora più a rischio e quasi un anno, senza di loro, è stato un tempo senza fine. Chissà che emozione per chi si è potuto riabbracciare dopo tanto tempo.

Oltre alle camere degli abbracci si sono aperte le stanze degli ospedali: qualcuno – e a certe condizioni – potrà tornare a visitare un suo familiare ricoverato, ad essere di aiuto e di supporto al personale medico e infermieristico che tanto si è speso.

E mentre si aprono questi spazi di umanità, dobbiamo ri-aprire le porte della nostra umanità, quella che fatichiamo a recuperare, quella che la solitudine ha trasformato in invidia, in cattiveria, quella che ci ha fatto guardare l’altro come un potenziale nemico.

Se non possiamo abbassare la mascherina alziamo lo sguardo, guardiamoci negli occhi, distanziati ma vicini. Questo è possibile per tutti. Questo è possibile anche ora.