Nella sua conferenza-stampa di inizio d’anno, la premier Giorgia Meloni ha manifestato l’intenzione di candidarsi alle Europee di giugno, anche se il mandato di Presidente del Consiglio è incompatibile con quello di euro-parlamentare. Il suo obiettivo politico è ovviamente quello di rafforzare i suffragi di FdI (che nei sondaggi sfiora il 30%), ma le reazioni delle altre forze politiche, dentro e fuori il Governo, non sono state incoraggianti: anzi, se la scelta sarà confermata, la Meloni rischia una corsa contro tutti, come avvenne per il premier Renzi nel 2016.
I più delusi sono i due vice-premier Tajani e Salvini, che temono di essere “cannibalizzati”. Il leader di Forza Italia ha chiesto di dare la priorità al governo del Paese, non alla campagna elettorale; il segretario della Lega si è tirato fuori dalla competizione (anche per i timori dell’affaire Verdini) e ha candidato il generale Vannacci, “punito” dal ministro Crosetto per le sue posizioni di estrema destra; contestualmente la Lega ha messo in discussione gli equilibri nel destra-centro per le Regionali, contestando le richieste di egemonia di Fratelli d’Italia, a cominciare dalla Sardegna.
Nell’opposizione uniti nel “no” il pentastellato Conte e i centristi, per una volta concordi da Calenda a Maria Elena Boschi; incerta la posizione del Pd, con i riformisti di Bonaccini contrari a giochi di sponda con la premier, mentre la segretaria Schlein è da un lato tentata dalla sfida diretta con la Meloni, dall’altra teme la rottura (e quindi l’isolamento) con il M5S e la minoranza del suo partito. Già il centro-sinistra è in difficoltà nel varare coalizioni per le Regionali, con Grillini e Centristi che si muovono in ordine sparso.
Ma il vero nodo da sciogliere resta quello indicato da Tajani: priorità ai comizi o ai problemi aperti nel Paese? Si possono ignorare i conflitti in Medio Oriente e a Gaza, si può sorvolare sulle gravi questioni sociali, dal lavoro alla sanità all’immigrazione? Sono temi molto più urgenti delle riforme dedicate al premierato elettivo e alla separazione delle carriere dei magistrati. A cominciare dalle crisi crescenti nell’industria.
A Torino i sindacati metalmeccanici hanno denunciato il permanente declino del settore automobilistico, con una produzione di veicoli ben lontana dai due milioni auspicati dal Governo. A Mirafiori, in particolare, si è raggiunto il minimo storico di 85 mila autovetture, con una flessione del 9% sull’anno precedente. A Taranto è in discussione il futuro delle Acciaierie, con 20 mila occupati; a Roma è ancora aperta con Bruxelles la trattativa su Ita (ex Alitalia), mentre sul tavolo del ministro Urso crescono le vertenze aziendali. È pur vero che l’occupazione è cresciuta, soprattutto per il boom del turismo (con il prevalere di contratti a termine); ma l’Italia può fare a meno di una moderna politica industriale?
Sulla sanità le cronache natalizie hanno riproposto le drammatiche immagini di ospedali sovra-affollati, di visite rinviate, di operazioni solo urgenti. Il bilancio statale 2024 non prevede significativi incrementi di spesa, mentre il nuovo patto europeo di stabilità rende più difficili, nel prossimo triennio, le spese in deficit. Per l’immigrazione siamo fermi ai discussi (e bloccati) patti con l’Albania, mentre l’onda di guerra rende sempre più drammatica la condizione umana nel Mediterraneo, nuovo “Mar morto”.
Guerra, lavoro, sanità, immigrazione…: anche i media dovrebbero favorire scelte adeguate da parte della politica: le stragi a Gaza e a Kiev meriterebbero sempre la prima pagina, a costo di “sacrificare” le inammissibili bravate dell’on. Pozzolo o le scuse “penose” dell’influencer Ferragni.
L’esempio tuttavia viene dall’alto: per questo le liste elettorali per le Europee non possono essere “ingannevoli”: occorre poter scegliere uomini e donne “veri”, in grado di partecipare veramente alle Assemblee di Bruxelles e Strasburgo, dando forza e credibilità alle istituzioni, in un momento decisivo per la scelta tra pace e guerra, nel cuore martoriato del Vecchio Continente e nella massacrata Terra Santa.
Anche la partecipazione popolare al voto del 9 giugno, giustamente auspicata dal Presidente Mattarella, sarà determinata dalla serietà delle forze politiche: non un plebiscito personale, ma la scelta di programmi concreti per il futuro dell’Europa.