Ha suscitato una accesa discussione – non ancora del tutto sopita – la decisione della casa editrice inglese Puffin Books di riscrivere parole o frasi dai libri del famoso scrittore Roald Dahl, espungendo o edulcorando espressioni che offenderebbero la sensibilità dei lettori odierni. Nel mondo editoriale anglosassone è spuntata addirittura la figura specialistica del “sensitivity reader”, una persona deputata ad individuare nel testo elementi offensivi verso minoranze o possibili errori che potrebbero poi rivelarsi imbarazzanti dopo la pubblicazione.

David Levithan, vice presidente della casa editrice Scholastic Press ha sostienuto a questo proposito che “c’è un ritrovato interesse nell’editoria per ragazzi nel servire al pubblico qualcosa di autentico e corretto”. Di diverso avviso è Wislawa Szymborska, nobel per la letteratura, la quale afferma che i “i bambini amano essere spaventati dalle favole”; e ancora: “Andersen atterriva i bambini, ma nessuno di loro, una volta diventato grande, gliene ha mai voluto. Andersen prendeva i bambini sul serio: non parlava loro soltanto della radiosa avventura della vita, ma anche di disgrazie, sventure e sconfitte, non sempre meritate”.

Verosimilmente, questo dibattito andrà avanti per un bel po’ sia per la necessità di non dover ritirare dal mercato un libro perché considerato razzista o per difendersi da possibili denunce, sia per rivendicare la capacità di ognuno di saper pensare, riflettere e comprendere il confine tra la descrizione di un personaggio e la volontà di diffamare.

In questi giorni si sta svolgendo a Bologna il “Children’s Book Fair”. L’editoria per i bambini è sempre più pronta e capace di affrontare temi che fino a pochi anni fa erano lontani dall’essere pensati per i bambini, eppure i bambini (e anche noi adulti) hanno bisogno di identificarsi sia con elementi e descrizioni positive che negative. Ciascuno di noi si è prima o poi sentito piccolo e nero come Calimero, ha vissuto esperienze simili a quelle del brutto anatroccolo, si è identificato con Biancaneve e qualche volta magari anche con la strega matrigna. Tutti noi adulti abbiamo certamente ballato almeno una volta l’Halli Galli (la canzone dei watussi, per intenderci) senza sentirci per questo razzisti.

Riscrivere per cancellare un concetto o un sentimento che in qualche modo sembra “scomodo” rischia di appiattire quello che nell’esperienza umana non è affatto neutrale, e limita la possibilità di pensare, di riflettere e di giudicare autonomamente. Cancellare toglie la possibilità di crescere, evolvere, di prendere una decisione ponderata, di sapere correttamente a cosa desidera aderire, ad assumersi anche la responsabilità della propria scelta e di subirne le conseguenze.

Non dimentichiamoci che nelle favole (prima che essa vengano riscritte da qualcuno per togliere quello che potrebbe “disturbare”…), c’è sempre la possibilità di un riscatto e di intraprendere una strada diversa.

Se togliamo o tagliamo o rivediamo o correggiamo parole e frasi, togliamo altresì la possibilità di poterci trasformare in altro: ci obblighiamo a rimanere sempre incastrati in un altro stereotipo, a non poter mai trovare una via d’uscita o di scampo di fronte ad una situazione o ad un contesto che in qualche modo disturba.

Perché alla fine il brutto anatroccolo si trasforma in un cigno, Kirikù sposa la strega Karabà, il gigante egoista apre il giardino ai bambini. E tutti, ciascuno a suo modo, vissero felici e contenti.