(Fabrizio Dassano)
Fu un volumetto di Benedetto Croce pubblicato da Giuseppe Laterza e figli a Bari nel 1917, in piena Prima guerra mondiale, come omaggio per il centenario della nascita di Francesco de Sanctis, che rivelò una romantica storia d’amore prima e d’amicizia poi. La scena era il Canavese in primo piano, e sullo sfondo la guerra d’indipendenza del 1859 e il primo periodo unitario. La protagonista femminile si chiamava Virginia Basco, viveva tra Torino e Mazzè ed era nata in una facoltosa famiglia nel 1836, anno in cui il padre comprò e riammodernò villa Tecchia ai piedi del castello dei Valperga-Mazzè, casata che si estinse nel 1840.
Il protagonista maschile di questa storia d’amore era un intellettuale esule napoletano che si chiamava Francesco De Sanctis, considerato il padre della critica letteraria italiana.
Il volumetto era un epistolario intitolato “Lettere a Virginia”, che fu raccolto e curato da Benedetto Croce dopo un pellegrinaggio a Mazzè, appena in tempo per ricevere dalle stesse amabili mani della contessa Virginia Riccardi di Lantosca, nata Basco, un fascio di lettere. Così scriveva Benedetto Croce: “Di questa finezza e amabilità io ebbi a sentire gli estremi raggi quando, nel 1914, fattole pervenire per mezzo di una comune amica il mio desiderio di ottenere copia delle lettere del De Sanctis che ella serbava, fui invitato nel settembre alla sua villa di Mazzè Canavese, ricevetti da lei premurosa accoglienza. E subito ella cavò da una cassetta e mi porse le lettere del suo maestro, legate con nastrini di seta celeste scoloriti dagli anni; e parecchie ne leggemmo insieme, sottolineate durante la lettura dal suo sorriso (particolarmente nei luoghi in cui toccava di sue ambizioni letterarie); e tutte mi permise di portare con me, per copiarle a mio agio per la pubblicazione che preparavo”.
Virginia morirà due anni dopo all’età di 80 anni, il 10 giugno 1916, un anno prima della pubblicazione del libro. Ma perché un intellettuale del calibro di Benedetto Croce si era interessato di questa storia ed era arrivato fino a Mazzè? Perché quando si considera una figura umana come “maestro”, è importante capire e pubblicare anche gli aspetti più intimi della vita, condividendo con gli altri studiosi della letteratura d’Italia, quell’amore che Croce ebbe per De Sanctis, rinforzato anche dalla napoletanità dei due giganti della critica letteraria: “E come critico e storico della letteratura, (De Sanctis, ndr) non ha pari”, aveva già affermato fin dal 1902 Croce in: “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”.
Francesco Saverio de Sanctis nacque a Morra Irpina da una famiglia di proprietari terrieri. Il padre era dottore in diritto e i due zii paterni (entrambi furono esiliati per aver preso parte ai moti carbonari del 1821) erano uno sacerdote e l’altro medico. Nel 1826 a Napoli frequentò il ginnasio privato di uno zio paterno, Carlo Maria de Sanctis. Intraprese gli studi giuridici subito trascurati per seguire dal 1836, la scuola del purista Basilio Puoti sul Trecento e sul Cinquecento, lezioni che il marchese teneva gratuitamente presso il suo palazzo, dove il De Sanctis conobbe Giacomo Leopardi e dove avvenne la sua vera formazione. Grazie all’interessamento dello stesso Puoti, venne nominato professore alla scuola militare di San Giovanni a Carbonara dal 1839 al 1841 e poi al Collegio militare della Nunziatella dal 1841 al 1848.
Contemporaneamente egli teneva, per gli allievi del Puoti, corsi privati di grammatica e letteratura, avendo tra i suoi allievi alcuni di quelli che sarebbero poi diventati tra i principali nomi della cultura italiana: i meridionalisti Giustino Fortunato e Pasquale Villari, il filosofo Angelo Camillo De Meis, il giurista Diomede Marvasi, il pittore Giacomo Di Chirico, il letterato Francesco Torraca e il poeta Luigi La Vista, suo allievo prediletto, che sarebbe stato ucciso durante l’insurrezione del 1848. Quelle lezioni furono chiamate la “prima scuola napoletana” dal 1838 al 1848 e furono pubblicate nel 1926 da Benedetto Croce con il titolo: “Teoria e storia della letteratura”. De Sanctis passò così da una prima fase di sensibilità romantica e leopardiana e di forte polemica anti-illuministica (con una convinta adesione a un programma cattolico-liberale, giobertiano, di restaurazione civile e morale) ad una seconda fase, nella quale ebbero gran parte la lettura di Hegel e le esperienze drammatiche del 1848, quando partecipò con alcuni dei suoi allievi ai moti insurrezionali. Fu così sospeso dall’insegnamento e seguito dalla polizia politica borbonica.
Fuggito in provincia, divenne precettore per il barone Francesco Guzolini. Qui scrisse i suoi primi “Saggi critici”, cioè le prefazioni dell’”Epistolario leopardiano” e alle “Opere drammatiche” di Schiller, ma nel 1850 venne arrestato e rinchiuso a Napoli nelle prigioni di Castel dell’Ovo per 3 anni, quando fu espulso dal Regno delle Due Sicilie dalle autorità borboniche e fatto imbarcare per l’America, ma riuscì a fuggire in uno scalo a Malta e a rifugiarsi a Torino.
Nella capitale piemontese non trovò una cattedra statale ma riuscì comunque a svolgere un’intensa attività letteraria. Lavorò come insegnante di lingua italiana presso una scuola privata femminile e diede lezioni private anche alla giovane Virginia Basco, collaborò a vari giornali dell’epoca come “Il Cimento”, “Lo Spettatore”, “Il Piemonte”, “Il Diritto” e iniziò a tenere conferenze e lezioni tra le quali quelle famose su Dante che, per la loro originale impostazione e per l’analisi storica e poetica, gli fecero ottenere, nel 1856, una cattedra di letteratura italiana presso il Politecnico federale di Zurigo. Qui tenne corsi su Dante, sui poemi cavallereschi italiani e su Petrarca. Questo periodo diede a De Sanctis l’occasione di elaborare meglio il proprio metodo critico, di approfondire le proprie meditazioni filosofiche e di raccogliere notevole materiale.
Con la costituzione del Regno d’Italia potè tornare in patria dove portò avanti, contemporaneamente all’attività letteraria, anche l’attività politica. Da quel momento egli si immerse di slancio nella realtà politica dell’Italia unita, ritrovando nell’azione la concretezza dell’ideale appreso da Machiavelli, Hegel e Man-zoni e cioè quello dell’uomo totalmente impegnato nella realtà.
Con l’azione militare di Garibaldi al sud fu nominato governatore della provincia di Avellino e per un brevissimo periodo fu ministro nel Governo Pallavicino collaborando per il rinnovamento del corpo accademico napoletano. Nel 1861 venne eletto deputato al parlamento nazionale, aderendo alla prospettiva di una collaborazione liberal-democratica, e accettò il ministero della Pubblica Istruzione nei gabinetti Cavour e Ricasoli, per cercare di attuare la fusione tra le amministrazioni scolastiche degli antichi stati pre-unitari. Il fallimento delle elezioni del 1865 coincise con il ritorno del De Sanctis a un grande impegno di studi concentrato sulla struttura di una storiografia letteraria che fosse di respiro nazionale e nel frattempo stava già lavorando a una “Storia della letteratura italiana” che, nata come testo scolastico, si sviluppò assai presto in un’opera di ampia e complessa portata.
Dal 1872 De Sanctis insegnò letteratura comparata presso l’Università di Napoli. Nel 1875 pubblico “Un viaggio elettorale” memoriale sulla condizione del sud dedicato proprio a Virginia. Nel 1876 accettò da Benedetto Cairoli un nuovo incarico ministeriale fino al 1880 mentre il suo interesse critico si rivolgeva al naturalismo francese. Ritornato a Napoli si dedicò alla rielaborazione del materiale leopardiano.
Colpito da una grave malattia agli occhi, De Sanctis morì a Napoli il 29 dicembre 1883. Ma per tutta la vita egli tenne sempre un posto per Virginia che era stata sua allieva privata prediletta durante l’insegnamento all’Istituto femminile della signora Elliot a Torino. Egli si recava a Mazzè da Torino in treno e dalla stazione di Caluso raggiungeva la suntuosa villa Basco a piedi (oggi villa Occhetti). Fu nel primo anno di soggiorno in Svizzera nel 1856, che egli lontano dalla sua famiglia e solo in quella terra, maturò la seria intenzione di chiedere la mano di Virginia.
Così spiega ancora Benedetto Croce: “Fu un sogno che egli concepì e carezzò nella solitudine di Zurigo: un sogno d’amore per una di quelle sue alunne, il cui nome torna più volte e con particolare rilievo – scriveva Benedetto Croce – nelle ‘Lettere a Virginia’, e che egli sperò di fare sua sposa. La tenerezza di questa passione, come dominava i suoi pensieri e i suoi sentimenti, così si spargeva su tutte le compagne della creatura amata; e avvolgeva particolarmente la Virginia, che delle sue scolare era la più stimata, quasi già una savia donnina, la cui amicizia e protezione egli sembrava invocare per la persona diletta”. Ma il sogno del professore si infranse nel 1856. Abbandonò la corrispondenza con tutte le altre sue studentesse ma mai con Virginia che andò in sposa all’ufficiale di cavalleria conte Enrico Riccardi di Lantosca, addetto allo Stato Maggiore del re. Virginia, come altre nobildonne dell’epoca, lo seguì nella battaglie di San Martino e Solferino con il permesso del conte di Cavour, egli stesso ospite in villa a Mazzè nella campagna contro gli austriaci nel 1859.
Da Zurigo il 15 ottobre 1856 scrisse con queste parole che aveva compreso il destino del suo sentimento per Virginia. “Mia cara Virginia (…) Così passeggiavo in lungo e in largo, ricordando tristemente la mia cara stanza di Torino, dove fui accolto con si generosa ospitalità; quando la mia brutta camera mi parve che s’illuminasse di un tratto, vedendo sul mio tavolino una lettera di Virginia. Guardai due o tre volte: temevo d’ingannarmi. Ma riconoscerei tra mille il tuo carattere, che mi ha tante volte destate sì grandi commozioni. Per quale miracolo una tua lettera si trovava prima di me a Zurigo? Sorrisi alla mia credulità e compresi amaramente la mia commozione: senza dubbio, dissi, questa lettera è un’antica lettera obbliata qui non so come. E l’aprii con mano trascurata. Cominciai a leggere e mi pareva di trasognare. Mio Dio! È proprio una tua lettera che tu indirizzavi a Belgirate, e che i miei pietosi amici mi hanno mandata a Zurigo (…) Ho passato un’ora con la tua lettera in mano; ne ho commentata ogni parola. Mi è sembrato come un lungo e doloroso addio. Purtroppo è vero mia Virginia. Il cielo non avea destinato che noi vivessimo insieme, e mi ha lanciato lontano da te e da tutti i miei cari. (…) Talora, volgendoti verso Caluso, ricordati che di là un giorno passava un tale con gli occhi fissi verso Mazzè”.
Francesco De Sanctis dopo la delusione si riprese e mantenne sempre i contatti con la “sua” Virginia per tutta la sua vita anche se si sposò nel 1863 con Maria Testa-Arenaprimo.
L’ultima lettera venne spedita da Napoli il 12 maggio 1883, sette mesi prima di morire: “Cara Virginia, dopo tre anni di lotte e di travagli, finalmente ho riacquistato l’uso degli occhi. Tu mi hai dimenticato solo in mezzo a’ miei mali. Ma che fa? Sei sempre Virginia, dagli occhi dolci e dal sorriso intelligente, e mi ricordo a te e ti chiamo. Lunedì sarò a Roma. Chi sa che non ci possiamo vedere! Saria per me una gioia. Addio”.