(Michele Curnis)
L’eporediese Giovanni Getto (1913-2002) non fu soltanto un maestro nell’arte dell’analisi stilistica, ma anche un formidabile organizzatore di letture collettive, destinate a diventare un riferimento importante negli studi internazionali. Nel caso della Commedia, pochi anni dopo la pubblicazione degli Aspetti della poesia di Dante (1947), Getto fu incaricato dall’editore Sansoni di rinnovare la serie della “Lectura Dantis”, la gloriosa collezione di volumetti dedicati a singoli canti o aspetti della vita e dell’opera del poeta che si era inaugurata nel 1889 (con la lettura del ravennate Corrado Ricci del canto V dell’Inferno nella Sala di Dante di Orsanmichele a Firenze) e si era conclusa nel 1942 (con la lettura del canto XI del Purgatorio condotta da Carlo Grabher nella Biblioteca Classense di Ravenna). Di molti canti si pubblicarono più letture, cosicché la collezione andò crescendo nel corso dei decenni (fu, tra l’altro, in questa collana che il canavesano Piero Giacosa pubblicò due letture: si veda Il Risveglio Popolare del 29 Luglio).
Getto non volle né ristampare l’antica serie né rimpiazzarla completamente con nuovi saggi; decise piuttosto di recuperare i testi che apparissero più criticamente fondati e liberi da pregiudizi estetici, affiancandoli ad altri più recenti, anche appositamente commissionati. Tra il 1955 e il 1961 uscirono così tre volumi, dedicati alle letture complessive delle tre cantiche e capaci di condensare più di mezzo secolo di studi danteschi: accanto ai nomi di spicco di fine Ottocento e del primo Novecento (Francesco De Sanctis, Arturo Graf, Vittorio Cian, Pio Rajna, Isidoro Del Lungo, Michele Barbi), Getto dispose nuove letture di importanti scrittori e letterati (Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Giuseppe Ungaretti), di critici militanti (Luciano Anceschi), di giovani allievi destinati a continuare la sua opera critica (Edoardo Sanguineti, Giorgio Bàrberi Squarotti) e naturalmente dei più scaltriti filologi italiani e specialisti di Dante di quel periodo (Gianfranco Contini, Bruno Nardi, Ernesto Giacomo Parodi, Umberto Bosco, Attilio Momigliano, Natalino Sapegno e moltissimi altri).
Getto non pensò mai che lo studio letterario potesse essere contaminato dalle idee politiche (a condizione che quello non fosse deliberatamente distorto a causa di queste); per tale ragione, non ebbe timore a includere nella silloge delle Letture dantesche anche nomi come quelli di Ettore Romagnoli e di Giovanni Gentile, così fortemente collusi con il regime politico dei decenni precedenti. Neppure volle restringere l’accostamento polifonico a Dante al solo ambito italiano, includendo tra gli autori dei contributi Erich Auerbach, André Pézard, Leo Spitzer e Reto Roedel. Appare evidente, dunque, come questa collezione non sia soltanto un’antologia della critica dantesca della prima metà del Novecento, ma anche un campionario del pensiero umanistico italiano (ed europeo), erede della ferace stagione dello storicismo e sperimentatore di nuove metodologie filologiche.
Nel 1962 i tre volumi furono riuniti in un solo, di più di duemila pagine, stampato su carta d’India e rilegato in pelle morbida: un elegante prodotto editoriale che contiene cento letture dantesche, una per ogni canto del poema, a firma di ottantotto diversi critici (fra i quali, naturalmente, lo stesso Getto, autore delle letture del canto XVII dell’Inferno e del XXIX del Paradiso).
Tale genere di lavoro, la cui principale ambizione è di accompagnare la lettura dell’opera, non restò esperienza isolata nella produzione di Getto: soltanto due anni più tardi lo studioso eporediese l’avrebbe ripetuta, questa volta tutto da solo, con uno degli scrittori a cui era più affezionato: l’autore dei Promessi sposi. Le Letture manzoniane furono stampate con la stessa veste editoriale del volume unico delle precedenti Letture dantesche. E ancora nel 1967 Getto licenziò un analogo saggio di lettura del Morgante di Luigi Pulci (per l’editore Olschki di Firenze).
Una delle conseguenze della raccolta e della disamina delle Letture dantesche fu lo stimolo a redigerne una nuova; e fu ancora una volta la voce di un poeta – non già la scrittura di un erudito – a suscitare l’ulteriore riflessione di Getto. Quando pubblicò Il canto introduttivo della Divina Commedia (Firenze 1960, poi ristampato nella seconda edizione degli Aspetti della poesia di Dante), egli confessò infatti che lo spunto del suo scritto proveniva da Giuseppe Ungaretti, che aveva firmato la lettura di Inferno I nella silloge sansoniana uscita cinque anni prima. Com’è noto, la presentazione del canto che inaugura il poema richiede enormi capacità critiche, giacché si tratta del segmento poetico che introduce tutto il viaggio (non solo la parte infernale): in esso sono racchiusi il programma complessivo dell’opera e la chiave profetica per accedere alla sua piena comprensione.
Pertanto, il critico deve misurarsi con le difficoltà di identificazione del fantomatico veltro, l’essere nutrito da «sapïenza, amore e virtute» (v. 104) che ricaccerà la lupa nell’inferno, permettendo la salvezza di «quella umile Italia» (106), che storicamente rappresenta l’origine e lo sviluppo dell’impero romano e poi cristiano.
Getto non rientra certamente in quella categoria di studiosi che si appassionano soprattutto per gli enigmi e le cruces del testo di Dante, le oscure profezie o le ambiguità che danno adito a molteplici interpretazioni, nessuna delle quali gode di unanime riconoscimento o accettazione. Per questo, di fronte alla prima (e forse la più importante) profezia del poema, il suo atteggiamento critico è di esemplare chiarezza e univocità. Lo studioso non ricorre né a formule di attenuazione né a complicate perifrasi per esprimere la sua ipotesi, che qualunque edizione commentata della Commedia ancora oggi riporta – anche quando non è propensa ad accoglierla.
Merita riportare le sue stesse parole, poiché sono un modello di semplicità esegetica: «Il veltro annunziato da Virgilio è Dante stesso. L’identificazione a me pare indubitabile. Qualunque personaggio storico ben determinato si proponga, la soluzione dell’enigma apparirà in ogni modo inadeguata, sia per le difficoltà che incontra negli elementi che compongono la profezia, sia per la limitatezza stessa, direi, del personaggio proposto, che apparirà sempre inferiore all’attesa di Dante e alla grandezza del compito assegnatogli». Rielaborando in forma originale idee di Leonardo Olschki (Dante «poeta veltro», Firenze 1953) e di Ungaretti, Getto giunse a questa sorprendente conclusione sull’identità del veltro, attribuendo a Dante autore e personaggio un compito profetico di portata universale.
Al termine della lettura, poi, Getto dimostrava una volta di più la personale fedeltà a quei parametri interpretativi fondamentali, che sempre contraddistinguono i suoi studi: la storia, il tempo e lo spazio, ossia le tre dimensioni di esistenza di qualunque essere umano e delle sue rappresentazioni letterarie. Il canto iniziale dell’Inferno esprimerebbe soprattutto «un particolare sentimento del tempo» (si noti l’espressione che richiama il titolo dell’omonima raccolta poetica ungarettiana, pubblicata per la prima volta nel 1933); «un sentimento che distingue storicamente ed esistenzialmente fra un’età di morte e un’età di vita», ossia l’età di Virgilio (del paganesimo, «de li dèi falsi e bugiardi», v. 72) e l’età della redenzione, di cui Dante stesso sarebbe il nuovo simbolo.
Così concludeva Getto la lettura: «Storia, tempo e spazio sono fatti per operare, per operare nel dolore e nella fatica, ma non per la morte sì per la vita, non per la malinconia ma per la felicità. Così il canto che ha preso l’avvio dalla selva oscura, attraverso la visione della città terrena rinnovata dal veltro, punta verso la visione della città celeste: e dal tempo di disperazione iniziale giunge al tempo della speranza, al tempo della grazia, al tempo della gioia».
Sulla scorta di questa avvertenza, il lettore può intendere il significato storico e salvifico del canto introduttivo della Commedia; detto diversamente, ha già ottenuto una preziosa guida segnaletica che gli permette di avventurarsi nel viaggio vero e proprio del poema sacro.
Nella foto: Letture dantesche, a cura di Giovanni Getto (Sansoni, Firenze 1962).
L’astuccio del volume, che comprende tutte le letture dei cento canti del poema dantesco, fu illustrato con un’immagine del giudizio universale di Giotto (Padova, Cappella degli Scrovegni)