(Fabrizio Dassano)
Il 1968 fu l’anno della grande e trasversale contestazione giovanile, partita con il “maggio francese”. In quell’anno anche a Ivrea, piuttosto timidamente, si vide l’esordio di un movimento che si era già esteso in tutto il Paese e sarebbe durato in diverse fasi alterne per più di dieci anni.
In realtà ad Ivrea si era già tenuta, dal 10 al 12 giugno 1967, una tre giorni a livello nazionale che lasciava presagire i vagiti di una nascente “lotta al sistema”: si trattava dell’esplicazione pubblica del manifesto “Per un convegno sul Nuovo Teatro”, pubblicato l’anno prima dal saggista Franco Quadri all’interno della rivista “Sipario”. L’obbiet-tivo del convegno fu presto raggiunto: il nuovo teatro doveva diventare eminentemente politico.
Trascorse oltre un anno prima che, nel novembre 1968, gli studenti eporediesi scendessero in piazza, cominciando dagli allievi del Liceo Botta per passare agli studenti dell’istituto per il commercio Jervis. In circa 500, ricordano le cronache dell’epoca, protestarono davanti alle rispettive scuole per poi ritrovarsi tutti nei giardini di fronte al Liceo Botta. Nell’assemblea seguente vennero discussi i punti che portarono alla manifestazione e poi raccolti in un ciclostilato che venne diffuso in città. “Preso atto della necessità di continuare la lotta per arrivare in piena autonomia alla formulazione definitiva delle nostre richieste e per dimostrare la nostra intenzione di sostenerle con tutte le nostre forze e la nostra organizzazione di massa”, si comunicava in buona sostanza che lo sciopero sarebbe proseguito.
Inoltre gli studenti del Botta rivendicavano il diritto ad utilizzare le aule del liceo per le loro riunioni, le interrogazioni volontarie, la discussione sul voto. Lo sciopero, iniziato prima del 31 ottobre, sarebbe ripreso come conseguenza del mancato recepimento di tali istanze, riassunte in una “carta rivendicativa” presentata al preside Formia. La risposta era giunta, ma tardiva. E lo sciopero era ripreso con le motivazioni diffuse in un altro volantino: i metodi di insegnamento di alcuni professori, la ritardata risposta alla carta rivendicativa appunto, il disagio delle ragazze che frequentano una palestra non razionale e le disposizioni emanate dalla presidenza relativamente alla concessione di permessi durante le ore di lezione.
A Torino preso di mira un eporediese illustre
A Torino la situazione era precipitata già dal dicembre 1967 e poi nel gennaio 1968, quando il rettore dell’Università richiese l’intervento della polizia a Palazzo Campana per sgomberare l’accesso all’aula magna occupata da un centinaio di studenti che impedivano le lezioni. I giovani vennero portati fuori a braccia dagli agenti. Dura la contrapposizione tra l’Ateneo e gli studenti: il rettore, professor Allara, dichiarava di voler ristabilire l’ordine, altrimenti sarebbe andato alla deriva lo Stato medesimo, non solo l’Università: due mesi di occupazione e di interruzione delle lezioni non erano tollerabili, mentre la “carta rivendicativa” non era ancora giunta alle autorità accademiche. Gli studenti ribattevano che invece alla facoltà di Architettura il dialogo era iniziato con le agitazioni in corso e che non si poteva dialogare senza l’agitazione.
Nel turbinio degli avvenimenti che porteranno a cambiamenti radicali nella società e nel costume si registrò un fatto molto grave che riguardò un eporediese d’eccezione: il professor Giovanni Getto, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Torino, critico di fama internazionale che – già prostrato da anni di intenso lavoro – rimase sconvolto da oltre cinque mesi di agitazioni studentesche. In un giorno di gennaio 1968, entrando a Palazzo Campana vide i carabinieri sul marciapiede, si fece largo tra gruppi di studenti agitati e una volta arrivato in aula trovò sulla sua cattedra un giovane che arringava gli studenti in tumulto: “Professor Getto, oggi niente lezione!”. “Ma allora i miei allievi non hanno più bisogno di me?”, chiese lui. Gli risposero di no, pur non senza attestati di stima. Ma ormai il dubbio lo rode e inizia il suo decadimento psicofisico, nonostante i soli 55 anni di età. La luce del suo studio in via Po è l’ultima a spegnersi: prepara fino a notte fonda le lezioni per l’indomani. Inutilmente, perché le occupazioni proseguono giorno dopo giorno. Nelle ultime due settimane si regge solo con il bastone e gli amici lo portano in collina per tentare di distrarlo. Il 10 maggio, alle 4 di mattina, tenta di farla finita… Soccorso in extremis, viene trasportato alle Molinette: è grave, ma si salverà.
Giovanni Getto e i giovani dell’AC di Ivrea
Classe 1913, Giovanni Getto era stato una delle colonne dell’Azione Cattolica a Ivrea. Dopo la laurea in letteratura alla Normale di Pisa, quando già aveva iniziato la carriera accademica alla Cattolica di Milano, nel 1942 subentrò a Ernesto Talentino (richiamato alle armi prima in Jugoslavia e poi in Russia) alla presidenza della Gioventù italiana di Azione cattolica.
Incarnò la nuova generazione dell’organizzazione cattolica eporediese, quella generazione che non aveva memoria dell’Italia pre-fascista e che pur scemando contava ancora oltre 2mila iscritti nella diocesi. Il gruppo di pensatori cattolici di Ivrea che si trovava davanti all’imminente caduta del fascismo era composto dall’assistente spirituale don Mario Vesco, e poi Luigi Gedda, Rodolfo Venditti, Carlo Alberto Borello, Giuseppe Beccio, Carlo Marucco, Emilio Parato; dall’esterno si distinguevano i frequenti apporti di Carlo Donat Cattin, mentre Giovanni Getto (che era in contatto con Lazzati, Dossetti, Montini) riuscì a portare alcune volte a Ivrea Giorgio La Pira.
Già dal gennaio 1943 si gettavano le basi per una resistenza cattolica basata sul valore della persona umana, in previsione della caduta del fascismo e della successiva occupazione tedesca. E già pochi giorni dopo l’arresto di Mussolini, il Risveglio Popolare del 26 agosto 1943 titolava coraggiosamente “Perché è sparito come la nebbia” e il successivo 2 settembre 1943, 6 giorni prima del fatidico armistizio, un altro articolo a firma di don Giuseppe Pittarelli coraggiosamente titolava: “Evviva la libertà”, argomentando che il regime aveva “campato fin troppo, e certamente se non avesse avuto tanti interessi oppur idioti che lo sostenevano, sarebbe crollato assai prima”.
Se il patriottismo cattolico negli anni precedenti aveva appoggiato o accettato il regime, con l’occupazione tedesca esso sperimentò valenze differenti, in grado di sostenere la costruzione di quella che Getto definì nell’autunno del ’44 “la nuova Italia del secondo Risorgimento”.
Il 25 luglio del ’44 era caduto in combattimento un giovane del gruppo, Gino Pistoni, morto dissanguato da un colpo di scheggia di granata mentre portava al riparo un nemico ferito e il 2 febbraio 1945 era stato fucilato al cimitero di Ivrea il capo partigiano Ugo Macchieraldo, non senza prima aver perdonato cristianamente chi lo stava uccidendo.
Giovanni Getto si sarebbe ripreso dalla buriana del 1968 e avrebbe ricominciato le sue lezioni all’Università e i suoi studi. Non gli mancarono non certo altre amarezze: “Barocco in prosa e poesia”, uno dei suoi saggi-capolavoro, fu rifiutato da Einaudi perché Getto era diventato a Torino un “barone” contestato dagli studenti, ma sarebbe uscito l’anno dopo per Rizzoli che non si fece sfuggire il colpo.
E una giuria gli decretò il premio Viareggio per la saggistica. Getto si spense a Bruino il 9 giugno 2002.
Una foto di circa 70 anni fa. In prima fila si riconoscono, da sinistra: Giovanni Getto, Modesto De Paoli, Luciano Tavazza, don Mario Vesco, mons. Rostagno e Rodolfo Venditti (da “Il Risveglio Popolare” del 14 giugno 2002)