(Fabrizio Dassano)

Ho notato che di questi tempi l’aeroporto di Milano Malpensa accomuna alcuni genitori conosciuti che accompagnano i loro figli per viaggi del tipo “senza ritorno”. Iniziano altrove una “nuova” vita. Viaggiano, partono, ritorneranno per un saluto e ripartiranno ancora. A Malpensa tra l’andirivieni pazzesco di viaggiatori, tutto sembra magico, emozionante, ci si sente parte di quell’umanità fortunata che può spostarsi liberamente.

Quando vai ad accompagnare tuo figlio che si trasferisce all’estero, probabilmente per sempre, tutto il teatrino elettrizzante resta senza luci. Lo spettacolo è differente. Il magico baraccone diventa esso stesso un luogo differente. L’entusiasmo lascia lo spazio alle strette al cuore. Agli sguardi intensi, al vuoto che sai che ti prenderà quando dovrai tornare indietro sull’auto da solo.

Eppure tuo figlio è lì che sta entrando in quel turbinio di persone, di partenti, singoli, coppie e a gruppi, di tutte le etnie possibili. Quando sei in fila per l’imbarco chiacchieri del più e del meno appoggiato al carrello colmo delle sue valigie e accarezzi quasi l’idea di familiarizzare con gli altri che saranno i suoi compagni di viaggio. Come se volessi raccomandarlo a loro affinché tutto vada bene, perché tu genitore stai “uscendo” di scena. Ti passa tutta la sua esistenza davanti agli occhi, da quando era un bambinetto ad ora che spicca il volo e va a vivere molto lontano: così lontano che sai che non potrai raggiungerlo senza organizzare una vera e propria trasferta, chiedere ed ottenere un visto, prenderti le ferie per fare il viaggio.

Ci si avvicina sempre più per lasciare le valigie alla gentile signorina che ti accoglie con un sorriso: “Partite tutti e due?”, chiede. “No, solo lui… mio figlio”. È il primo distacco: le valigie sul nastro, il carrello abbandonato, seguo meccanicamente il suo zaino sulla sua schiena in mezzo alla gente e andiamo verso il suo “gate”.

È andata peggio per chi viaggia verso gli States o Israele: chi non ha il biglietto per quelle destinazioni non può nemmeno avvicinarsi al check-in.

Ci si saluta come tante altre volte, ma questa volta sembra più difficile. Tra le mille ultime cose da dire esce solo l’unica e banale (si fa per dire) raccomandazione che ogni genitore ripete: “Dammi solo un colpo di telefono quando sarai arrivato”, che aggiornato ai tempi moderni significa “Mandami almeno un messaggio quando sarai arrivato”.

Sulla strada del ritorno, i nostri paesi sono avvolti dalla nebbia mattutina che talvolta lascia filtrare qualche raggio di pallido sole mentre i campi di riso riposano. Sono a terra o sono anch’io con la testa su quell’aereo? Il pensiero mi tormenta tutto il giorno fino a quando, a notte fonda, lo smartphone si illumina e compare un fotografia di lui sorridente che saluta ormai dall’altra parte del mondo: la sua nuova dimora.