Di fronte ai nuovi ma costanti e sempre drammatici fatti di cronaca che coinvolgono le donne, si fa sempre più riferimento alla scuola come luogo e tempo a cui demandare una formazione emotiva che coinvolga gli studenti a partire dai primi anni di frequentazione.

Ma alla scuola possiamo delegare proprio tutto? I tempi, i luoghi e le persone della scuola sono così a disposizione e competenti per poter sostenere ogni mancanza che la società accusa? Quante responsabilità stiamo addossando alla scuola per sollevare altri contesti che a volte sembra usino l’alibi della mancanza di tempo, della stanchezza, dell’ignoranza, per abdicare dal loro compito? E qualora fossimo tutti d’accordo che la scuola sia l’unico luogo deputato alla presa in carico di un’educazione affettiva ed emotiva dei giovani, saremmo altrettanto d’accordo che tutti i docenti ed insegnanti abbiano fatto i conti con i propri vissuti, con le proprie contraddizioni, con i propri pregiudizi?

Perché educare all’etica, al rispetto, alla capacità di sapersi sentire persona di valore (e dare all’altro lo stesso valore), saper riconoscere le proprie emozioni e permettere ad un’altra persona di conoscere le emozioni altrui e mediare tra i propri bisogni e quelli dell’altro, beh! questo richiede un percorso che non tutti hanno compiuto né tutti sono in grado di trasmettere.

Sulle spalle della scuola non si può gettare tutto; non può farlo la politica, la famiglia, i corpi intermedi, le istituzioni. La scuola non può molto senza la famiglia, che dovrebbe essere il luogo principale in cui si apprende la gestione delle emozioni che un bambino sperimenta già dalle prime fasi della crescita. Quella sensazione di benessere e di malessere che il piccolo in fasce prova e la risposta che, chi si prende cura di lui offre, crea già il sentiero per l’emersione di sentimenti di piacere e di dispiacere, di rabbia e di paura.

Le emozioni che un genitore prova, vengono trasmesse al figlio che a sua volta si modella su tipi specifici di risposte. Nel momento in cui il bambino accede alla scuola ha già un proprio bagaglio di risposte emotive.

La società in genere, ma la famiglia in particolare (in qualità di primo contesto sociale che il bambino sperimenta) non può delegare alla scuola un lavoro che ha cominciato, e che persevererà nel fornire attraverso il linguaggio verbale e corporeo, attraverso quei modi di dire che fanno parte di un lessico familiare, gli esempi con cui si faranno sempre i conti nella vita. Mentre gli anni della scuola passano e cambiano gli insegnanti e i compagni di classe, le figure di accadimento del bambino nella maggior parte dei casi rimangono stabili nel tempo e, anche quando non sono più presenti fisicamente, continuano ad esserlo come parte di un romanzo familiare.

E alla famiglia è imposto anche un lavoro costante nel tempo. Il bambino diventa adulto e dovrebbe continuare a ricevere supporto, opportunità di scambio con le persone di riferimento. La scuola può intervenire solo marginalmente se la famiglia non offre quei presupposti utili ad un cambiamento di pregiudizi, se la famiglia non si mette in profondo ascolto di se stessa e se non riflette per prima sul tipo di adulto di cui si assume la responsabilità di crescere.

Vale per famiglie con figli e con figlie. Il sistema familiare, compresi i nonni, i parenti più vicini o anche gli amici, le persone che frequentano abitualmente la casa, dovrebbero assumersi in prima battuta la responsabilità di una educazione emotiva, affettiva e alle relazioni sociali. Esistono anche risorse esterne che possono contribuirvi in un sistema che non potrà mai esimersi di fare rete, rete di comunicazione, di sostegno, di azione non mancando mai di esserne parte integrante ed attiva.