Mi sono recentemente imbattuto in un dipinto di Francisco Goya, intitolato “El garrotillo”. Nel dipinto del 1810, un medico esamina le fauci di un bambino, cercando le placche tipiche della difterite. Infatti, come la tremenda “garrota” causava uno strangolamento comprimendo il collo dei condannati, così la difterite provocava la morte per lenta asfissia.
Che impressione ricordare che, stanchissimo, una notte del 1984 avevo compiuto l’identica manovra (ingenua e sconsigliata dalla buona pratica medica) su un piccolo bambino arrivato in ospedale a Kitgum, nel nord dell’Uganda, in gravissime condizioni. Con i suoi due dentini appena accennati, mi aveva causato una piccola lesione sull’indice della mano destra.
Da quella ferita si svilupparono prima un’ulcera e una grave tonsillite, poi una paralisi del velo pendulo, infine una neuropatia periferica a braccia e gambe. Non avevo più forze e potevo fare pochi passi alla volta. Si trattava delle temute complicazioni neurologiche della difterite, che potevano esitare nella paralisi respiratoria. Non erano disponibili le antitossine, unica terapia efficace. Eppure sopravvissi, probabilmente perché era rimasta la memoria immunitaria della vaccinazione che avevo ricevuto da piccolo.
Partecipando all’apertura della mostra che a Biella, a Palazzo Ferrero, racconta la meravigliosa, ma breve vita di Maria Bonino, mi sono chiesto: “Perché io sono sopravvissuto alla difterite, mentre la cara amica è morta per l’infezione da virus di Marburgo, contratto mentre curava i bambini ammalati – che chiamava dolcemente pazientini – nel remoto ospedale di Uíge nel poverissimo nord dell’Angola?”.
Ripercorrendo la sua storia, leggendo sugli eleganti pannelli le sue lettere, guardando nelle foto il suo volto sempre sorridente e lieto, ascoltando le testimonianze di chi ha goduto della sua amicizia e compagnia, ho capito che Maria era giunta alla sua perfezione. Aveva sognato, nella sua bella giovinezza di servire i più poveri e i più piccoli e abbandonati. E quel sogno di bontà, giustizia, amore e bellezza si era realizzato nella sua vita.
Dio ce l’ha ridonata – attraverso il sacrificio della sua morte, condivisa con i suoi pazientini, malati e fragili come uccellini – come fulgido esempio di una vita spesa solo per il bene di chi è dimenticato da tutti. Dio ce la restituisce – attraverso la sua famiglia e la fondazione che porta il suo nome e con una mostra da non perdere – bella, vivace, sognatrice, non convenzionale, umile e determinata, controcorrente, appassionata e dolce.
Vera madre dei suoi pazientini e di noi poveracci.