(Susanna Porrino)
Ho notato che, soprattutto tra i più giovani, in questi mesi si sente fortissimo il disagio di fronte all’idea di vedersi “rubati” gli anni migliori della propria vita, gli ultimi giorni di liceo, i vari momenti rituali legati all’Esame di Stato e i divertimenti che avrebbero dovuto essere tipici di questi mesi e di quelli che verranno.
A loro vorrei dire che, per quanto spiacevole possa essere la situazione e per quanto sarebbe stato auspicabile che le cose fossero andate in diverso modo, in realtà non ci è stato rubato nulla. Ciò che sconvolge è che per la prima volta si è costretti a scontrarsi con l’idea che l’esistenza possa essere davvero unica e irripetibile, e non mera replica di un percorso seguito o imposto da altri, già stabilito in partenza.
La vita non è un prodotto realizzato in maniera seriale, seguendo lo stesso stampo e modello per ciascuno; e proprio da questa percezione deriva forse il senso di frustrazione e di disagio delle generazioni di questi anni, costrette a convivere con la sensazione di essere o perennemente “in ritardo” rispetto alla vita, o perennemente allineati con un modo di trascorrere la propria esistenza che non si è scelto da sé, ma si è imparato ad imitare da altri e che pare essere il più giusto e in grado di condurre alla realizzazione.
In questi giorni, ho avuto l’impressione che tutta la questione relativa all’Esame di Stato abbia fatto emergere in maniera chiarissima il bisogno di standardizzare il percorso di ognuno e di definire con precisione delle tappe di sviluppo esterne ed oggettive, per regolare con dettagliata precisione una maturazione interna che invece avviene anche spontaneamente e in totale autonomia, con tempi graduali e diversi per ognuno.
Nel sentire rimarcare con così tanta enfasi l’importanza simbolica di questo evento per giustificare la scelta di svolgerlo ad ogni costo, anche se improvvisato all’ultimo minuto e senza alcun rispetto per il lavoro degli alunni (continuando a rimandare qualunque tipo di decisione al momento di un eventuale ritorno a scuola, anche quando ormai era chiaro che la riapertura delle aule non sarebbe più avvenuta prima del prossimo autunno), mi chiedo se la definizione di Maturità come “rito di passaggio” non abbia finito per paralizzare la scuola in uno schema fisso che diversamente, pare, non potrebbe funzionare.
Ognuno nella propria vita si scontra in ogni caso con momenti ed episodi – spesso anche più complessi e profondi di quelli legati alla vita scolastica – che marcano un confine netto e invalicabile tra un “prima” e un “dopo”. I percorsi personali, in qualunque ambito, funzionano nel loro insieme anche se sono diversi da quelli sperimentati dalla maggioranza; e le esperienze che realmente ci hanno toccato e cambiato nel corso del tempo non hanno in realtà sempre bisogno di un formale momento di conclusione per rimanere impresse nelle nostre vite.
La elevata componente esistenziale che è stata attribuita a questo esame sembra aver quasi implicato l’idea che in sua assenza sarebbe completamente impossibile per uno studente passare ad una fase successiva della crescita.
Eppure non può di certo essere un esame preparato in fretta e furia un mese prima della chiusura delle lezioni a determinare l’ingresso nell’età adulta, che di certo si chiarifica e si estende ben oltre i limiti di un colloquio orale.
I cinque anni di Scuola Superiore trascorsi avrebbero avuto un valore anche senza una formula conclusiva che li rendesse uguali a quelli di tutte le annate precedenti: e forse sarebbe bello ricordare che ciò da cui è realmente importante lasciarsi cambiare è l’esperienza in sé, non la sua fine.