Ogni anno ci accostiamo al 25 luglio nella speranza di ricordare il sacrificio di Gino Pistoni con una buona novella: abbiamo debellato definitivamente la guerra, abbiamo creato una condizione nuova nella quale la supremazia e il sopruso dell’uomo contro altri uomini è definitivamente superato.

Anche quest’anno abbiamo mancato miseramente l’obiettivo e ci accostiamo al ricordo di Gino con speranze rinnovate, ma con un sostenitore importante in meno: dopo una lunghissima traversata sui sentieri terreni della vita monsignor Luigi Bettazzi è tornato al Padre, lasciandoci un po’ spaesati, smarriti e quasi increduli.

Una lunga esistenza come quella di monsignor Luigi sembra interminabile e la longevità non prepara comunque al profondo dispiacere del distacco: anzi, talvolta la consuetudine ci fa sperare (erroneamente) in una permanenza illimitata e quasi scontata.

Trovo due parallelismi nelle esistenze di questi due quasi coetanei (Pistoni nacque tre mesi dopo Bettazzi), tra la breve vita terrena di Gino e quella ben più lunga di monsignor Luigi.

Il primo è un modo molto differente di servire la pace.

I contesti sono molto distanti, le circostanze presentano difformità che difficilmente possono creare analogie, ma entrambe le testimonianze sono la dimostrazione di una umanità ancora convinta che la violenza possa essere soluzione di controversie.

Gino dona la vita per testimoniare il grande amore per l’umanità senza classificare l’umanità tra amici o nemici, avversari o compagni.

Con onestà e rettitudine serve un solo Dio senza farsi sedurre da altri idoli: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Matteo 6,24).

L’uso in questo contesto del termine ricchezza richiama in realtà con forza le povertà dell’essere umano compresa la violenza, il sopruso, le angherie e l’orgoglio.

L’esempio di Gino suggerisce che la violenza non può in alcun modo essere terreno di confronto perché essa è la negazione del dialogo e del discernimento di cui è stato creato l’uomo.

Era il 1944: Gino sceglie Chi servire fino alle estreme conseguenze, non lo rinnega nel momento della paura, non accusa altri uomini della sua morte e testimonia con il sangue a Chi intende donare la sua vita ormai al termine.

Il tempo di monsignor Bettazzi è un tempo moderno rispetto a quello di Gino Pistoni: è un tempo di maggiore consapevolezza, ma non ancora scevro da cupidigia e prepotenza.

Propongo allora una riflessione collettiva: se Gino ha testimoniato con la vita l’importanza della pace tra i popoli, se Luigi ha speso gran parte del suo ministero per proclamare la supremazia della pace sulla guerra, che cosa non abbiamo ancora compreso?

Se monsignor Bettazzi si è prodigato in giro per il mondo testimoniando la gioia dell’essere in pace tra noi e Gino lo ha testimoniato con la vita, dove siamo noi come cristiani in questo preciso periodo storico?

Siamo tutti a Tour d’Héréraz sanguinanti e soli come negli ultimi istanti di Gino, ma siamo anche tutti nelle tasche di monsignor Luigi che non ha mai smesso di raccontare la conciliazione (e il Concilio!) come unica strada per la salvezza.

Siamo tutti nei viaggi di Bettazzi che sceglieva di fare già del tragitto una sorta di testimonianza nella quale è implicito il ruolo del cammino per giungere alla meta.

Gino dolorante e solo, Bettazzi alla ricerca dello sguardo e del sorriso delle comunità.

Il secondo pensiero che mi viene è più sentimentale nei confronti di entrambi.

Mi piace pensare che la lunga vita di monsignor Bettazzi sia anche un riscatto per Gino che ha terminato la propria esistenza troppo in anticipo.

Se guardiamo l’arrivo di Bettazzi a Ivrea nel 1966 sembra una staffetta con Gino morto 22 anni prima: la nostra Diocesi aveva tenuto vivo il messaggio di Gino e lo ha consegnato con fiducia al Vescovo Luigi che lo ha testimoniato per altri 57 anni.

Finisce quindi tutto qui?

Con la tentazione di rassegnarci a pensare che Gino Pistoni è un bel ricordo, monsignor Bettazzi è ormai impegnato in chissà quale nuova provocazione e noi siamo un po’ orfani?

Nulla di più sbagliato! Chiudere queste esperienze nel cassetto dei ricordi equivale a vanificare due esistenze così diverse, ma così propense al dono e all’impegno.

Vorrei concludere con due frasi pronunciate da personalità molto differenti tra loro, ma consapevoli della gravità della violenza.

La prima è di Douglas Macarthur, comandante militare americano: “Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra”.

La seconda citazione è di San Giovanni Paolo II: “La pace richiede quattro condizioni essenziali: verità, giustizia, amore e libertà”.

Gino e monsignor Luigi ci hanno insegnato a viverle: a noi mettere a frutto la lezione.

Marco Cosentino

Il servizio sarà anche su Facebook: non dimenticatevi di iscrivervi alla pagina Fb del Risveglio Popolare:

https://www.facebook.com/risvegliopopolare

Redazione Web