L’intesa bipartisan Meloni-Schlein sulla legge contro i femminicidi ha provocato un importante confronto politico nel centro-sinistra, in particolare nel Pd: l’ex ministro Dario Franceschini, “azionista” di maggioranza nei Dem, ha chiesto alla segretaria di aprire il dialogo con l’Esecutivo anche sulle riforme istituzionali. Franceschini non crede al “premier eletto” e propone il semi-presidenzialismo, mentre un altro dem autorevole come il costituzionalista Ceccanti, è per la scelta del “cancellierato alla tedesca”. Ma la novità è la richiesta di porre fine alla strategia del muro contro muro, esattamente l’opposto del segretario della Cgil, Landini, con la linea dello scontro, anche costituzionale (soprattutto dopo le ordinanze di precettazione anti-sciopero del ministro Salvini).

La Schlein, sinora impegnata nella strategia del “movimentismo” (non premiata con esiti lusinghieri dai sondaggi), si troverà presto di fronte a una scelta strategica: radicalismo o riformismo, primato alla piazza o alle assemblee elettive? Peraltro è sempre incerta la strategia del “campo largo” delle opposizioni, perché Conte, Calenda, Renzi, per ragioni diverse, non accettano patti impegnativi, ma unicamente intese su temi specifici. Un po’ poco per una politica di alternativa.

L’ex ministro Franceschini, secondo le anticipazioni del “Corriere della Sera”, ritiene che la Meloni giocherà tutte le sue carte sulla riforma costituzionale, disposta anche a modifiche essenziali, non potendo puntare né sull’economia (per i vincoli di Bruxelles), né sulla politica estera (per i limiti dell’atlantismo); l’obiettivo dell’esponente dem è quello di salvare il ruolo del Parlamento, riducendo il rischio “dell’uomo, o donna, solo al comando”. Ma per i Popolari del Pd la vera strategia è quella di non precipitare il partito nel pericolo sollevato dagli anni ‘50 da Pietro Nenni: “piazze piene, urne vuote”. C’è poi l’esigenza di non abbandonare lo storico rapporto con la Cisl, oggi “emarginata” dal ruolo primaziale della Cgil di Landini (lo sciopero generale è stato indetto nonostante la contrarietà del sindacato di Pastore, Marini, Donat-Cattin, Carniti, Sbarra…).

Sarà comunque il voto europeo la “cartina di tornasole” della sfida a sinistra tra radicali e riformisti.

In maggioranza è continuo il conflitto interno Fdi-Lega, dalla contestazione al ministro Lollobrigida (per il treno “fermato”) alle questioni energetiche. Ma il nodo cruciale è la politica estera: Salvini ha esultato per la vittoria dell’estrema destra danese, il cui leader Wilder è contro l’UE e i migranti. Tale linea della Lega comporta come obiettivo il fallimento della strategia della Meloni di inserimento nella futura maggioranza di Bruxelles, oggi governata da Popolari, Socialisti, Liberali. Una spaccatura a Strasburgo tra Meloni e Salvini, con la premier nell’area di governo e il leghista all’opposizione, porrebbe problemi di primo piano a Palazzo Chigi che necessita del sostegno finanziario europeo, come si è visto con i fondi del PNRR (di cui è stata aggiudicata a Roma la quarta rata).

Come per il centro-sinistra, anche per il centro-destra la scelta è radicale, tra populismo anti-europeo e conservatorismo “atlantico”. Intanto la Meloni “frena” le riforme gradite alla Lega (in primis quella sulle autonomie regionali), mentre ha dato un sostegno a Forza Italia sulla giustizia, con una discutibile dichiarazione del ministro Crosetto su una presunta manovra anti-governativa di una corrente della magistratura.

Molto rumore anti-toghe, ma nessun elemento concreto, nonostante il rischio istituzionale di delegittimare un potere essenziale dello Stato democratico.

Anche le prossime elezioni regionali registrano i dissidi interni ai due poli. Nel centro-sinistra lo scambio Sardegna-Piemonte è saltato a Cagliari per le divisioni nei Dem, a Torino per la ferma opposizione dell’on. Appendino al “matrimonio” pentastellati-Pd. Nel centro-destra Salvini si oppone alle richieste di leadership di FdI, chiedendo la conferma dei Governatori in carica (tra cui Cirio). È inoltre mancato (per i costi) l’obiettivo di riforma delle Province, con l’abolizione della legge Delrio e il ritorno all’elezione diretta degli amministratori.

A 15 mesi dal voto delle politiche, il quadro generale è stabile (anche per l’assenza di un’alternativa credibile), ma le fibrillazioni interne alle coalizioni sono in crescendo, con una navigazione a vista, giorno per giorno.