“Secondo le mie profonde convinzioni, esiste solo un mezzo per migliorare le condizioni socio-economiche della popolazione, ovvero mettendo in atto i principi cristiani nell’ambito della libera cooperativa”.
Così descriveva Friedrich Wilhelm Raiffeisen (1818-1888) il concetto ispiratore della sua opera. Nell’infanzia e nell’adolescenza aveva ricevuto una profonda educazione religiosa e a 17 anni entrò nell’esercito del re di Prussia. Nel 1845 terminò gli studi a Coblenza, venne nominato Borgomastro (Sindaco non eletto dal popolo ma di nomina imperiale) al paese di Weyerbusch, tra le montagne del Westerwald, oggi in Renania-Palatinato, noto appunto con l’appellativo de “Il paese della povera gente”. Di fronte all’indigenza dei suoi amministrati, vittime della crisi economica ed alimentare del 1846-48, Raiffeisen fondò la “Commissione di assistenza per i poveri” che chiedeva prestiti ai cittadini più ricchi per distribuire danaro a quelli più poveri, introducendo come copertura, il principio della responsabilità illimitata dei soci. Con quel danaro comprò il grano a Colonia e distribuì la farina ai contadini affamati e promosse la costruzione di un forno di comunità.
Così la commissione si trasformò in “Società del pane” per venderlo a credito e a costo bassissimo. Trasferito ad amministrare il paese di Flammersfeld, nel 1849 fondò la “Società di mutuo soccorso di Flammersfeld per l’assistenza degli agricoltori sprovvisti di mezzi”. Nacque così la prima Cassa Rurale ed Artigiana. Poi a Heddersdorf una Associazione Cassa Rurale. Malgrado fosse afflitto da cecità, accompagnato dalla figlia Amalia, fondò numerose realtà nel mondo agrario ai confini della Germania.
Soprattutto in Francia fu accolto per la fondazione delle cooperative del latte. In Italia Leone Wollem-borg (1859 – 1932), di famiglia ebrea padovana di origini tedesche, avendo letto l’opera di Raiffeisen e collaborando alla sua rivista, il “Landeswirtschaftliches Genossenschaftblatt”, iniziò l’azione di cooperazione trovando l’appoggio incondizionato del basso clero per la lotta contro la miseria dei contadini veneti. Wollemborg era laureato in giurisprudenza (e diventerà ministro delle Finanze del governo Zanar-delli del regno d’Italia nel 1901) con una tesi sull’autonomia fiscale dei comuni.
A 24 anni aprì, con l’industriale vicentino Alessandro Rossi e Luigi Luzzati (teorico delle banche popolari), la prima Cassa Rurale d’Italia a Loreggia, nel padovano, il 20 giugno 1883. L’intento era quello di aiutare fittavoli, piccoli proprietari, chiusuranti (vocabolo diffuso nel nord est che indica il conduttore di un piccolo fondo e bracciante per conto terzi) e in genere tutto il mondo agricolo minore, a sollevarsi dalla miseria e a liberarsi dagli strozzini con la concessione di prestiti in denaro a basso interesse e a scadenze lunghe. L’esperimento, a cui collaborarono il medico condotto Carlo De Portis e il cappellano don Nicola Condotta, ebbe tale successo da essere presto esteso ai comuni vicini e via via divulgato nella provincia, nella regione e poi in tutta Italia.
Nel volgere di pochi decenni il numero delle casse rurali di prestiti italiane toccò le 3500 unità. In Trentino (allora ancora Tirolo Austro-Ungarico) opera analoga fu compiuta dal presbitero italiano e cittadino austriaco, don Lorenzo Guetti (1847-1898).
Su questa situazione di indigenza economica si era mossa la chiesa: papa Leone XIII nel 1891 con la sua enciclica Rerum Novarum, riconosciuta come base della “dottrina sociale della Chiesa”, scendeva in campo in un mondo sbigottito che subiva il progresso indiscriminato del capitalismo della II rivoluzione industriale, con gravi ripercussioni a danno delle fasce sociali più deboli, soprattutto a causa dell’usura. Al centro dell’enciclica c’era il lavoro, non inteso come mero sfruttamento per la produzione di capitale ma come salvaguardia della dignità umana. Il lavoro doveva garantire quindi la dignità dell’individuo e della propria famiglia in una prospettiva di miglioramento per i figli. Antitesi alla prospettiva della lotta del socialismo che vedeva il proletariato destinato ad imporsi sulla classe capitalista.
Ma in campagna il socialismo poco si legava allo spirito contadino. Il centro “sociale” dei paesi restava “la parrocchia” e nella quasi totalità i parroci presenti sul territorio, erano a loro volta figli di contadini. L’elaborazione del pensiero del papa si svolse nei congressi degli studi di scienze sociali del 1892 a Genova, del 1894 a Roma e del 1895 a Torino dove da tempo agivano i cosiddetti “santi sociali”.
La situazione italiana era differente rispetto alle altre nazioni europee a causa delle gravi ferite ancora aperte tra Stato e Chiesa, a causa del compimento del Risorgimento in chiave anticlericale. Invece in Francia e in Germania i cattolici contribuivano all’elaborazione di una legislazione sociale, mentre in Italia papa Leone XIII medesimo manteneva la disposizione “Non expedit” promulgata dal suo predecessore. Quindi – e il successo fu enorme – l’iniziativa delle casse rurali doveva per forza di cose partire “dal basso”, dai paesi di campagna, dove in “breve tempo sorsero moltissimi istituti di credito agrario, diretti a togliere i piccoli proprietari ed il lavorante agricolo dalle fauci dell’usura che lentamente li divora”. In Italia il dibattito si fece molto acceso poi su due direzioni prese dalle Casse Rurali: quelle di matrice cattolica e quelle di matrice liberale.
In Canavese per esempio, la “Cassa Rurale di Prestito in Vische” nacque su iniziativa del pievano del paese, don Giuseppe Reano che con atto del regio notaio Sangiorgio nel febbraio 1896, costituì una società cooperativa in nome collettivo “con lo scopo di migliorare la condizione materiale e morale dei suoi soci, fornendo loro il denaro a ciò necessario ed accettarlo dai medesimi, ed anche da altri, denaro in deposito”, come si legge nell’atto riportato da Sandro Ronchetti, nel suo “La Cassa Rurale a Vische, 100 anni di storia comune” nel 1996.
Nel dicembre 1896 si annoveravano 53 soci con quasi 15 mila lire di movimenti, cioè di prestiti concessi, 46,50 lire in cassa con un attivo di lire 4,71. L’intento sociale della Cassa vischese non tardò a porre in essere somme destinate non soltanto al prestito agevolato, ma anche a fondo perduto: il socio Bartolomeo Villa nel 1906 presenta una mozione per distribuire un sussidio ai poveri per un importo complessivo di circa 150 lire, e ciò attesa la scarsità dei raccolti dello scorso anno. Mozione che fu accolta all’unanimità. Con la presidenza di Eusebio Bertone il 26 marzo 1911, l’assemblea dei soci deliberò di aderire alla Federazione Piemontese delle Casse Rurali.
A differenza di molte altre Casse rurali, i conti a Vische andavano bene: gli attivi di cassa superavano le 722 lire nel 1911 per attestarsi a 552 lire allo scoppio della Grande Guerra per superare quota 1.000 lire nel 1917. Alla fine del 1918 i depositi ricevuti dalla Cassa superarono le 400.000 lire con un profitto che triplicò le 1.000 lire dell’anno terribile di Caporetto. Così vennero stanziate somme ragguardevoli all’Asilo Infantile, al Patronato Scolastico, al Ricreatorio Maschile e a quello Femminile. La cassa elargì un prestito al Comune di Vische che, in assenza di stanziamento governativo, necessitava di 4.000 lire per pagare il sussidio ai profughi di guerra. L’utile maturato dalla Cassa nel 1919 fu di 4.161,76 lire, delle quali 1.679,84 vennero accantonate come riserva, ma ben 2.481,92 lire vennero devolute in beneficenza a Vische. Ancora nel 1920 ben 1.500 lire vengono devolute al locale Circolo Cattolico “Stanislao Solari” per ripianare le spese per l’impianto elettrico e la macchina da proiezione cinematografica sistemata in teatro. Inoltre la Cassa concorreva, immediatamente dopo la fine della guerra, a lavori di restauro e all’installazione di un nuovo organo Vegezzi Bossi in sostituzione di quello vetusto del 1771.
Malgrado l’avvento del fascismo la Cassa rurale fu protagonista del grande evento del Novecento di Vische: la divisione della Tenuta Savoia, latifondo dei marchesi Birago e della sua coseguente distribuzione della terra ai braccianti di Vische che divennero finalmente contadini, proprietari della loro terra, grazie alla garanzia economica fornita dalla loro Cassa, la principale “attrice” di questo atto “rivoluzionario”, pacifico e forse unico in Italia che coinvolse la maggior parte di un latifondo feudale complessivo di oltre 310 ettari di terreno.