“Pace a voi” Gv 20,26
(elisabetta acide) – Beonnie Ware, ha lavorato come assistente dei malati terminali ed ha deciso, a seguito delle sue lunghe esperienze, di scrivere un libro “I cinque rimpianti più grandi di chi sta per morire”, un testo dal successo mondiale e dal titolo davvero particolare: rimpianto e morte. Ma quali sono questi rimpianti? Ware cita:
- Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele ai miei principi e non a quello che gli altri si aspettavano da me
- Vorrei non aver lavorato così tanto
- Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti
- Vorrei essere rimasto in contatto con i miei amici • Vorrei aver permesso a me stesso di essere felice
Per noi che cosa è il rimpianto? Abbiamo rimpianti?
Facciamoci aiutare, ancora una volta, dalla lingua italiana, così bella, così ricca e melodiosa…perché le parole hanno un senso e raccolgono significato.
Rimpianto: Ri cordo nostalgico e dolente di persone o cose perdute, di occasioni mancate. Molteplici i sinonimi, tra cui rammarico, nostalgia, dolore, dispiacere, rimorso…
Le “occasioni mancate” …forse…
Le persone o le cose perdute …forse…
Il ricordo nostalgico del tempo passato …forse…
Rimpianti…forse…
E se…e se…e se…
Dubbi e interrogativi prima e dopo…
Importante è dubitare, riflettere, analizzare, ma anche il coraggio di vivere e accettare è un valore.
“Se sappiamo attraversare solitudine e desolazione con apertura e consapevolezza, possiamo uscirne rafforzati sotto l’aspetto umano e spirituale. Nessuna prova è al di fuori della nostra portata; nessuna prova sarà superiore a quello che noi possiamo fare. Ma non fuggire dalle prove: vedere cosa significa questa prova, cosa significa che io sono triste: perché sono triste? Cosa significa che io in questo momento sono in desolazione? Cosa significa che io sono in desolazione e non posso andare avanti?” (Papa Francesco Udienza del 26 ottobre 2022)
Ma siamo proprio sicuri di voler vivere sempre di rimpianti?
Il contrario è compiacimento e rallegramento…Proviamo a riflettere sulla nostra vita, per “accoglierla senza rimpianti”, per vivere con serenità ed accettazione, aiutandoci da ora, ad accogliere e accoglierci.
Spesso viviamo troppo di giudizi e condizionamenti, viviamo vite che non sono nostre, facendo esattamente ciò che gli altri si aspettano o che “fan tutti”.
Per non avere rimpianti viviamo secondo i nostri principi e secondo il “nostro cuore”, sforziamoci di dare il giusto peso alle cose, alle situazioni, al tempo, proviamo a dare “significato” alle cose per noi, non per il mondo.
Abituiamoci al coraggio delle scelte, sforziamoci di discernere con coscienza e forse saremo soli, ma non avremo rimpianti di una vita vissuta “come” gli altri e non “per noi.
Tutti desideriamo la felicità, tutti vorremmo la felicità per i nostri cari…ma sappiamo apprezzare la felicità? Che cos’è la felicità?
Forse la felicità è il giusto equilibrio tra le cose della nostra vita, il tempo speso bene e ciò per cui vale la pena spenderlo. È vero che le cose che ci rendono felici si apprezzano solo dopo… ma se provassimo ad “anticipare”, se ci sforzassimo di “leggere la nostra vita” alla luce del nostro bene reale?
Non abbiamo paura di esprimere i nostri sentimenti, di dire “ti voglio bene” ai familiari, compagni, mariti, mogli, figli, agli amici, a chi è accanto a noi, a chi condivide un pezzo di strada con noi. Impariamo dai bambini che dicono “ti voglio bene come il cielo, come il mare”; non è un segno di debolezza esprimere i propri sentimenti, ma un segno di umanità, purezza, sincerità: la nostra natura vuole il bene.
Perché dobbiamo avere “pazienza” sempre con tutti?
C’è un’opera di misericordia che occorre riscoprire: “sopportare pazientemente le persone moleste” perché la vita non ci risparmia “ospiti scomodi” nelle nostre giornate. La tradizione sapienziale cristiana ci porta a distinguere tra molestie che provengono dalla cattiveria umana, altre che sono espressione di maleducazione, altre che scaturiscono da strutture sbagliate.
Quindi essere paziente? Riserviamo la pazienza a chi la “merita”
Esiste una “pazienza buona” legata alla passione per la vita; quello che rende buona la pazienza è legato allo scopo per il quale la si esercita: avere lo sguardo puntato fuori di sé, su una meta, un obiettivo che ha valore per chi lo persegue. Esiste anche una “pazienza sacrificale”, quella “a denti stretti”, quella del “non posso farne a meno” e forse quella, della “resistenza”, certo, a volte necessaria, ma a quale scopo? Sicuramente la pazienza va “esercitata” giorno dopo giorno, fino a renderla parte del nostro modo di essere, ma quella “buona”, legata alla passione per la vita. Il primo dovere, forse, è evitare noi le molestie agli altri, interrogarci sui riflessi delle nostre azioni e delle nostre parole. Abbiamo per due anni “ragionato” sul fare sinodo, forse avremmo dovuto “essere sinodo”, impegnarci di più, insieme, con coraggio, con sollecitudine (forse lì mediando e parlandoci in dialogo sincero), nella comunità con rispetto delle persone, che seppur nella diversità, non possono non condividere il percorso del cammino. Allora, per provare a vivere “senza rimpianti” sviluppiamo relazioni sociali sincere, fatte di dialogo e ascolto, di rispetto e condivisione, impariamo ed esercitiamo a “guardarci e a guardare” con occhi nuovi, anche i particolari e riconoscerli e riconoscerci come dono. Se non vogliamo avere rimpianti dobbiamo imparare a sopportare ed accettare i disagi inevitabili, le piccole croci che scaturiscono dalla convivenza nella comunità e dalla diversità, per poter maturare in umanità, insieme e non da soli. Dio ci ha dimostrato la sua pazienza, anche di Dio è detto che “trattiene l’ira, la punizione, perché è benigno, paziente e vuole portarci al ravvedimento” (Rm 2,4), ma non dimentichiamo…anche Lui si è arrabbiato per cambiare. C’è un episodio dove Gesù è descritto con un frustino in mano che scaccia i mercanti con i loro oggetti e animali dal Tempio di Gerusalemme: ecco, non dobbiamo vedere nel gesto di Gesù un’azione provocata dalla rabbia né dall’ira e neppure come un gesto “senza pazienza”, al contrario, il gesto di Gesù è quello del profeta inviato dal Signore per ristabilire la sacralità del luogo dove Dio ha posto la sua dimora: “mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me (Salmo 69,10). Gesù che tutto sopportava e sopporterà pazientemente per amore dell’uomo, questo è motivo di tristezza e commozione così intensa che scatenerà la sua indignazione, una reazione all’ipocrisia, alla fariseità. Quindi una vera e propria “gelosia” di Gesù per la casa del Signore nei confronti di chi si è approfittato del luogo per farne un covo di ladri; d’altra parte, è ancora il Vangelo di Giovanni a dirlo: verrà «l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21). A Gesù “importa” del Tempio, non si ferma a trovare il modo migliore di mediare. Come Dio dona a ciascuno di noi il tempo di cambiare, di convertirsi, così anche noi dobbiamo offrire alle “persone moleste” (delle quali sicuramente facciamo parte), una nuova opportunità di vivere in pace con tutti, usando pazienza, indulgenza, ma anche correzione amorevole, scambio di opinioni, dialogo, sempre bi-laterale, con la forza dell’esporsi e del compromettersi.
Per il cristiano la pazienza è sia perseveranza, cioè fede che dura nel tempo, che makrothymía, “capacità di guardare e sentire in grande”, cioè arte di accogliere e vivere l’incompiutezza. La pazienza parte dall’umiltà, porta a riconoscere la propria personale incompiutezza diventando pazienza verso sé stessi, riconosce l’incompiutezza e la fragilità delle relazioni con gli altri e può diventare pazienza nei confronti degli altri, diventa speranza, invocazione e attesa di salvezza.
Ma pazienza e “sopportazione” non vuole dire abdicare o snaturare il proprio essere, le proprie scelte e la ricerca della verità, non vuol dire essere pusillanimi, né mercanteggiare per paura di essere isolati, forse vuole dire anche supportare e sostenere (ed essere sostenuti), ed allora la pazienza acquista il valore di virtù, perché volta al bene, non solo personale, ma della comunità, nei rapporti con gli altri, vicini e lontani. In una società così fluida come quella che stiamo vivendo sembra che la serietà, la stabilità di valori e comportamento sia diventata una parola e un genere di vita in disuso: infatti si preferisce ciò che è spontaneo, ciò che nasce dalla scelta “libera” e immediata, magari non sempre “in linea” con sé stessi. Ben vengano allora i “trasgressori” non perché ci riportano indietro nel tempo ma perché hanno il coraggio di prendere sul serio le decisioni, perché hanno sommo rispetto per la propria e altrui dignità. Per non aver rimpianti, proviamo a leggere il mondo con “gratitudine” pensandoci e pensando agli altri ed alle cose come “dono”. Impariamo non a rincorrere ma a ringraziare, non ad ottenere, ma ad apprezzare, non a dare tutto per scontato, ma a guardare con occhi nuovi anche le cose “vecchie”, non accontentiamoci, non abbandoniamoci alla mediocrità, ma cerchiamo di migliorare sempre, ogni giorno, viviamo di “sana inquietudine”, non concentriamoci su ciò che ci manca, ma su quello che abbiamo ed allora la nostra vita sarà “piena”.
«L’occhio è stato creato per la luce, l’orecchio per i suoni, ogni cosa per il suo fine, e il desiderio dell’anima per slanciarsi verso il Cristo» (Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, II, 90)
Redazione Web