Nell’ampia e fertile pianura dell’Alto Canavese, tra l’Orco e la Malesina, sorge la cittadina di Ozegna, circondata dai centri importanti di Castellamonte, Rivarolo, Agliè e San Giorgio.
La storia delle sue origini si perde nelle nebbie dei primi secoli dopo Cristo.
Il suo nome Augenia, poi Useina e quindi Ozegna, deriverebbe, per trasformazione, dal leggendario Eugenio che l’avrebbe fondata verso il 392 d.C.
Dopo svariate vicende storiche, Ozegna viene nuovamente all’onore della cronaca, nel 1623 per alcuni fatti straordinari.
Il 21 giugno di quell’anno, un ragazzo di nome Guglielmo Petro ebbe, nella zona detta dei Goritti nel territorio di Ozegna, la visione della Madonna (in due momenti successivi), in seguito alla quale guarì da una forma di mutismo, insorta a causa di un non meglio specificato “accidente” (termine che compare in una delle testimonianze scritte) che da diversi mesi gli impediva di parlare.
Tuttavia il fatto si svolse secondo modalità piuttosto inconsuete: infatti il ragazzo riperse la voce subito dopo la prima visione della Vergine, per riacquistarla in modo definitivo una volta che, secondo l’invito rivoltogli dalla Madonna di adempiere il voto fatto, si recò con un suo congiunto e altre persone di Ozegna in pellegrinaggio al santuario di Oropa.
Qui finalmente riacquistò l’uso della parola ed ebbe una terza ed ultima visione di Maria Santissima (evento, questo, tramandato oralmente e, pare, da uno scritto lasciato su un muro del sacello).
L’edificazione del Santuario
Dopo vari interrogatori (non solo al ragazzo ma ai suoi congiunti e alle autorità ozegnesi, compreso il castellano, che dovevano garantire che non si trattava di una simulazione), la gerarchia ecclesiastica diede l’autorizzazione alla costruzione di un santuario nel luogo esatto dove si era verificato il primo miracoloso evento.
La realizzazione dell’edificio principale e della cappella, dove si verificò la seconda apparizione, avvenne nell’arco di circa due anni.
Il terreno era stato donato dai proprietari, i Conti della famiglia San Martino, signori del feudo.
Si aggiunse al santuario, un convento e l’intero complesso venne donato (con apposito atto notarile nel 1625) ai Padri Riformati di San Francesco.
Santuario e convento divennero centro della vita religiosa, e non solo, della zona perché i frati francescani provvedevano ai bisogni spirituali degli ozegnesi e degli abitanti dei paesi vicini e, in caso di necessità (soprattutto mancanza di cibo in seguito a carestie) dovute a cause naturali (siccità prolungate) o politiche (ad esempio, il passaggio di truppe armate che dovevano essere rifornite di cibo dalla popolazione) i frati cercavano di alleviare i disagi fornendo ceste di verdure coltivate nell’orto del convento.
Il complesso venne chiuso nel 1802 in seguito all’ordinanza napoleonica che sopprimeva gli ordini religiosi e alienava i beni in loro possesso vendendoli a privati. Solamente nel 1873, il parroco di Ozegna don Lorenzo Coriasso riscattò il santuario e parte del con[1]vento, pagando di tasca propria e cedendolo poi alla parrocchia ozegnese.
Il Santuario, luogo di fede e di arte
Considerata per molto tempo solo sotto l’aspetto religioso, la chiesa è diventata, in questi ultimi anni, motivo di interesse anche sotto l’aspetto artistico tanto da essere stata inserita, per ben due volte, a distanza di cinque anni una dall’altra, nelle Giornate FAI di primavera.
Il santuario rappresenta un bell’esempio di primo barocco piemontese, soprattutto negli altari lignei particolarmente elaborati.
Non avendo documenti relativi ai vari progetti, dispersi durante il periodo di chiusura, non si può risalire al nome dei progettisti del com[1]plesso, si conosce tuttavia il nome di chi dirigeva i lavori: mastro Bernardino Comacchio, mentre si sa che la mano d’opera era fornita in buona parte dagli uomini di Ozegna e vicino al cantiere erano state realizzate fornaci per la produzione di mattoni e coppi.
Esperti hanno formulato l’ipotesi che la parte di ebanisteria possa essere opera di intagliatori originari della Valcamonica, mentre le pale d’altare potrebbero essere state eseguite da qualche confratello esperto di pittura.
Particolare interesse suscita la pala dell’altare laterale destro: essa rappresenta la visione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova.
Come soggetto, impostazione e composizione richiama in modo sorprendente quella conservata presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Torino, eseguita dal pittore di Corte Caravaglia nel 1653.
È possibile che il pittore locale abbia potuto vedere il dipinto torinese (anche quella chiesa era ed è affidata a Frati Francescani pur essendo, come costruzione, posteriore di una decina di anni rispetto al santuario ozegnese) o si sia formato alla sua scuola.
Le decorazioni parietali e della volta sono state eseguite solamente agli inizi del XX secolo da parte del pittore Boggio di San Giorgio Canavese coadiuvato dal decoratore Valponte; inizialmente le pareti erano affrescate con un colore bianco – azzurro.
L’altare maggiore, di grande impatto scenografico, si differenzia da quello delle altre chiese barocche di epoca successiva perché forma quasi un’iconostasi che separa la parte dedicata al culto da quella posteriore, un tempo coro; si sono conservati diversi grandi pannelli riportanti i versi di alcuni salmi su rigo musicale.
Sono stati recentemente restaurati per opera del Lyons Club Rivarolo Canavese.
In una nicchia, al centro dell’altare è posta l’effige di Maria eseguita secondo le indicazioni fornite, a suo tempo, dal ragazzo Guglielmo Petro.
Originariamente era un gruppo ligneo comprendente anche due angeli e la statua del ragazzo stesso ma questi elementi sono stati trafugati, in due momenti successivi, negli anni ’70 del XX secolo.
Di fianco alla nicchia contenente la statua della Madonna, circonda[1]ta da colonne a tortiglione e da cariatidi, ci sono due dipinti raffiguranti San Giuseppe e San Lorenzo.
Tutta la chiesa, nella parte muraria ancora ispirata alle linee tardo – rinascimentali, può essere definita mirabilis perché ritenuta “una stupefacente opera di grande impegno costruttivo, dato dall’imponente monumentalità, dalla soluzione ingegnosa di problemi tecnici e dalla ricchezza decorativa”.
Un pezzo unico dall’antico “studio” conventuale
La chiusura e l’allontanamento dei frati, nel 1802, e il successivo passaggio a privati ha purtroppo determinato la perdita di quasi la totalità dei documenti relativi al santuario che erano custoditi nella biblioteca del convento.
Quelli rimasti sono ora conservati nell’archivio e nei locali della chiesa parrocchiale di Ozegna.
Tra di essi vi sono trascrizioni della deposizione di Guglielmo Petro relativa a quanto gli era accaduto, in diverse riscritture, altre testimonianze rilasciate da testimoni alcuni anni dopo che il fatto era accaduto, libri di salmi del XVII secolo stampati a caratteri bodoniani e, pezzo straordinario, la copia unica del “Libro d’Ore” manoscritto e decorato con miniature realizzato in quello che era uno “studio” e che, in qualche modo, poteva essere considerato come la derivazione degli antichi “scriptoria” presenti nei monasteri medioevali.
Il “Libro d’ore” ozegnese è importante e prezioso perché rappresenta uno degli ultimi esempi eseguito in uno studio conventuale, con una tecnica che potremo definire mista.
Nel frontespizio, oltre l’indicazione di che cosa si tratta (Horae Diurnae Breviarii Romani), a chi è dedicato, chi reggeva la comunità di frati (il Padre Guardiano Pietro Maria da Noli) è citato anche chi aveva eseguito l’opera (il francescano Francesco Maria De Maria da Rivarolo) il luogo e la data di ultimazione (Ozegna, 25 ottobre 1763).
Data la regolarità delle lettere e di certi caratteri di interpunzione, è ipotizzabile che abbia usato dei modelli o delle sagome per tracciare le let[1]tere stesse (una specie di normografo “ante litteram”) e poi ripassarle con pennini, in un secondo momento.
Sicuramente miniati sono i capoversi che variano molto nella grandezza e nella decorazione a seconda se si trovano all’inizio di un paragrafo (i più semplici che si differenziano dalle lettere dei testi solamente per la grandezza e il colore), di un capitolo (lettere molto più grandi di colore verde, più elaborate rispetto alle altre, inserite in un riquadro sullo sfondo del quale sono state applicate decorazioni di tipo geometrico o arabescate, di colore rosso) o dell’intera sezione dedicata ad una parte della giornata.
In questo caso sono vere e proprie miniature in cui la fantasia del decoratore si è sbizzarrita nel trasformare una lettera in un essere fantastico e simbolico o nell’arricchirle con una policromia vivacissima o inserire in esse figure che in qualche nodo richiamano il momento della giornata cui si allude (il cardellino per le ore pomeridiane, una civetta per le ore notturne).
È un volume di grandi dimensioni e di notevole peso, doveva essere posto su un leggio nel coro in modo che tutta la comunità di frati potesse leggere sia le parole che le note dei canti (particolare curioso, per diversi canti si è usato ancora la scrittura non sul pentagramma ma sul tetragramma, cioè quattro righi, e le note sono segnate non con un tondino ma con un rettangolino).
Libro prezioso proprio perché unico e da mostrare e maneggiare solo in occasioni particolari e con estrema cura, ora conservato non più nei locali del santuario, per tanti motivi facilmente intuibili, ma in un locale della parrocchia dove non c’è umidità, la temperatura è abbastanza costante e l’accesso non è dei più semplici.
Ha la veneranda età di 370 anni: un minimo di attenzione gli è dovuta!
e.m.
Redazione Web