(Editoriale)

Abbiamo profondo rispetto di chi vive in queste ore il terribile dolore della morte precoce, e ancora avvolta da tante domande senza risposta, di una figlia in giovane età. Usiamo la compassione nel suo significato che ci è più caro: patire-con, soffrire con chi soffre, essere partecipi dei dolori dell’altro. E lo esprimiamo in queste righe avvolte dal pensiero struggente di una domanda; perché?

Perché un fiore che sta sbocciando nella primavera della vita perde in un attimo il suo colore, il suo vigore, il suo profumo e la voglia di crescere, maturare, dare frutti? Non ci sarà mai una risposta certa e totalmente completa, perché la risposta vera albergava in quel cuore che ha cessato di battere dopo un gesto, immaginiamo rapido e purtroppo ultimo.

La sete di sapere – opposta alla morbosità di sapere – non sarà mai soddisfatta appieno, lasciando, in chi non potrà dimenticare, uno strascico duraturo e una china faticosa da risalire. Che va comunque risalita con quel coraggio che, lo riconosciamo, è più facile da dirsi che da praticare.

Volendo cercare le ragioni che spingono a gesti così disperati – che si susseguono e si moltiplicano tra giovani e giovanissimi ovunque nel mondo, e pare ancor più laddove la civilizzazione ha raggiunto livelli da soddisfare (sembra) ogni bisogno – tendiamo a evitare una domanda che ci arriva diretta in faccia. Ma noi, adulti singoli e società in tutte le sue componenti, che responsabilità abbiamo? Che cosa non stiamo facendo o stiamo facendo male per indurre (non volontariamente, sia chiaro!) a strapparsi la vita di dosso?

Parlando dei 37, per la maggior parte minorenni, che a Torino si sono rivelati più violenti dei maggiorenni nelle devastazioni del 26 ottobre scorso, lo psichiatra Vittorino Andreoli va oltre i giudizi e le sentenze: “bisogna dare ruoli sociali agli adolescenti, mentre purtroppo la società non li tiene in considerazione, così come fa con i vecchi”. La violenza – contro se stessi e gli altri – arriva quando le relazioni saltano, quando alle scuole chiuse di questi penosi tempi seguono l’assenza della società e quella dei genitori, lasciati soli a gestire la crescita dei figli e l’esplosione dell’adolescenza. Era il novembre del 2019 quando Papa Francesco visitò il tecnologico Giappone, mettendolo in guardia contro i flagelli del suicidio e del bullismo che colpiscono soprattutto i giovani: “creando nuovi tipi di alienazione e disorientamento spirituale”, disse.

Solitudine, disperazione, isolamento erano, a quei tempi in cui il virus non aveva ancora confinato e distanziato di più le persone, peggiorandone la condizione, i motivi che il Papa sottolineava a preti e vescovi (e a tutti) invitandoli a “cercare di creare spazi in cui la cultura dell’efficienza, della prestazione e del successo possa aprirsi alla cultura di un amore gratuito e altruista, capace di offrire a tutti, e non solo a quelli ‘arrivati’, possibilità di una vita felice e riuscita. Con lo zelo, le idee e l’energia che voi potete dare, oltre che con una buona formazione e un buon accompagnamento, i vostri giovani possono essere una fonte importante di speranza per i loro coetanei e dare una testimonianza viva di carità cristiana”.

Non è una ricetta magica, ma da qui si può e si deve ri-partire.