(Fabrizio Dassano)
Il cronista medievale Pietro Azario, notaio novarese vissuto nel XIV secolo, è noto per due suoi testi giunti fino a noi: il “De Bello Canepiciano” che ci riguarda da vicino, e il “Chronicon”. Quest’ultimo descrisse le imprese dei primi Visconti, lungo un arco di tempo che va dal 1250 al 1364. Venne pubblicato nel 1729 da Ludovico Muratori, prefetto della Biblioteca Ambrosiana ed inserito nel volume XVI parte IV del “Rerum Italicarum Scriptores”.
Il “De Bello Canepiciano” invece lo pubblicava in Venezia nel 1697. È scritto in un latino incerto e grammaticalmente confuso e a noi è giunto per la traduzione dell’erudito canonico don Ilo Vignono, cancelliere della Curia Vescovile di Ivrea e bibliotecario della Capito-lare, rivista dal professor Pietro Monti e pubblicato nel 1970 con la collaborazione della Società Accademica di Storia e Arte Canavesana dal Lions Club di Ivrea.
Ma chi era Pietro Azario? Nella sua opera ci lascia un albero genealogico che dimostra che in parte è canavesano: il nonno paterno Filippo era nato ne 1269 nel novarese ed era notaio che sposò Imilda dei Pettenati di Mazzè. Il padre Giacomo fu attivo a Vercelli sempre come notaio e rogò un famoso “patto di conciliazione” nel 1319 tra i partiti avversi delle famiglie Cavallazzi e Tornielli, avverse ai Brusati.
Tornato dall’esilio a Vercelli, vi sposa Donina degli Alzalendina e nel 1312 nasce Pietro. Nel “De Bello Canepiciano” ci parla dello zio Giovanni Azario, podestà di Cuorgnè e delle terre sottomesse ai signori di Valperga. Proprio per questi signori partirà per Milano dove metterà sotto contratto nel 1339 trecento “barbute” tedesche, mercenari guidati dal capitano di ventura Lodrisio Visconti e con esse si mette alla caccia degli assoldati in servizio per i signori di San Martino invadendo e razziando il Canavese, uccidendo gran numero di contadini, tagliando le viti e incendiando le case. Sbaragliati nei pressi di Saluggia, dove la Dora Baltea si getta nel Po. Lui stesso al seguito dello zio, nella spartizione del bottino ricevette cinque cavalli e molti prigionieri che lascerà liberi senza riscatto. Seguì la guerra del Canavese per tutta la sua durata fino al 1343, quando si trasferì al servizio dei Visconti a Borgomanero prima e poi a Bologna come notaio amministrativo delle compagnie mercenarie di Galeazzo Visconti, con il quale partecipa ad incursioni belliche in Toscana e a Modena nel 1351 e ’52.
Soggiornò ancora a Borgomanero, Asti, Pavia e infine a Piacenza nel 1364 al servizio del podestà Tornielli. La peste aveva falcidiato la sua famiglia: la prima moglie, Franceschina del Fossato, era morta. La seconda moglie fu Donnina Tornielli, nobile novarese che gli diede l’ultimo figlio Filippono. Di cinque figli due erano morti di peste. Nel 1362, con la nuova epidemia di peste, Pietro fuggì con la famiglia a Tortona e qui scrisse i suoi lavori. Probabilmente morì nel 1367.
Nella sua opera “canavesana” Pietro Azario riflette sulla fragilità e sulla caducità della vita: come le foglie cadono e si rinnovano i fatti umani, ogni giorno variano le condizioni delle cose e generano errori. Immutabili le cose divine, continuamente mutevoli le circostanze umane, per cui fatalmente sono caduti i nobili del Canavese, già potenti e ora interamente soggetti ad altri padroni. Infatti l’opera narra della guerra che stancamente porterà alla spontanea dedizione dei signori del Canavese ad Amedeo VI di Savoia, signore di Ivrea. Ma la miglior descrizione Pietro Azario la dedica alla battaglia di Caluso del giugno del 1349 che rompeva una tregua precaria.
Brevemente spiegheremo che Giovanni II di Monferrato, appoggiato a quei tempi da Luchino Visconti, voleva anche riprendersi il controllo di Caluso, pesantemente fortificata e guarnita di artiglieria (la prima registrata in Canavese fin dal 1337-1339) da Filippo prima e Giacomo d’Acaja poi.
Dopo un primo investimento nel 1338, la fortezza di Caluso con mura alte 20 metri e il suo florido centro abitato, sono nuovamente attaccati: i più bei nomi del partio Guelfo di Ivrea e del Canavese accorrono alla difesa: “in alcun luogo – scrive l’Azario – si svolse mai un attacco di fanteria così accanito e violento”. Di fronte al vessillo rosso e bianco i calusiesi spalancano la porta di Fagnano (attuale parte bassa di via Guala) e gli attaccanti entrano dopo un discorso del marchese Giovanni di Monfer-rato che li esorta alla vittoria per punire i calusiesi della loro superbia: superbis enim Deus resistite et umiles exaltat.
Dall’alto i calusiesi osservano le barbute tedesche avanzare e i balestrieri occupare la porta; giunti a metà della salita i guerrieri guelfi si scagliano contro le colonne dei soldati scompaginandole. Questi serrano i ranghi e continuano a salire. A quel punto un vero e proprio bombardamento di sassi piove dalle logge e dai tetti e lascia a terra feriti e morti. I tedeschi si ritirano per dove erano entrati. Il loro schieramento non è idoneo a combattere casa per casa.
Arringati una seconda volta dal marchese che li esorta a non farsi prendere in giro dai Calusiesi, entrano truppe fresche che avanzano a testuggine formata da grandi scudi pavesi. I difensori lasciano le spade, impugnano pesanti mazze e si scagliano contro la testuggine sfaldandola, dietro ai mazzieri giungono sempre di corsa i picchieri che fanno arretrare e ritirare il secondo assalto. Riconquistata la porta, i calusiesi la lasciano aperta.
Il marchese ordina un nuovo attacco su tre direttrici: i balestrieri terranno la porta e un gruppo attaccherà per la solita via, i fanti che avanzeranno per le due strade laterali dietro le barbute incendieranno tutte le case per evitare nuovi bombardamenti di sassi e di dardi. Nella solita via si scatena la battaglia, ma le altre due colonne non incontrano resistenza e incendiano le abitazioni raggiungendo brevemente la piazza del borgo. Richiamati dagli incendi i difensori lasciano la battaglia e la colonna guidata dal marchese raggiunge anch’essa la piazza.
Il borgo è in fiamme e i difensori si rinchiudono nel castello. Il morale dei vincitori è alle stelle. I nobili rinchiusi, sapendo dell’assalto al castello previsto per il giorno successivo, nella notte aprono una breccia nel muro del castello e scappano tra i boschi di Candia, lasciando la guarnigione senza comando pronta ad arrendersi a Giovanni II di Monferrato, sperando nella sua clemenza.