Prima di recarmi in ufficio, ultimamente sono solito andare a comperarmi una focaccia in panetteria. Per praticità lo faccio al mattino presto. Oltre al fatto che sono tornato a vivere questi momenti che appartenevano ormai solamente alla mia infanzia, è sempre interessante osservare le persone che si accingono al rito dell’acquisto del pane: rito che pensavo (quasi) scomparso con l’avvento dei supermercati in cui il pane c’è a tutte le ore, ma… non c’è la panettiera, sostituita da sportellini e da guanti monouso.

La cosa bella della panettiera è che, in quanto essere umano, parla: del più o del meno, dei raffreddori di stagione, del sole e della pioggia e di altre varie amenità più o meno importanti, ma il solo sentire una voce gentile alle 7,30 di mattina è davvero confortante. Basta frequentare per qualche mattina una panetteria per avere il polso del quotidiano parlottare, sopravvissuto alla forzata fretta delle cassiere del supermercato che al massimo ti chiedono se hai la tessera, ma quasi mai hanno il tempo di fare una battuta o spendere due parole. Forse perché la panettiera maneggia un cibo quasi sacro che è il pane quotidiano?

La panetteria è un baluardo per ora inespugnabile di quella fragranza mattutina e di quel profumo del pane che sa indirizzarti la giornata, che sa dirti che c’è ancora speranza e calore umano (non solo quello del forno sul retro) già al mattino molto presto. Poi non so cosa succede dopo in panetteria, sia chiaro! Ma credo che questa atmosfera tenga almeno fino a mezzogiorno.

Come una volta, quando tutto si fermava per il pranzo. I lavori in campagna si bloccavano al dodicesimo rintocco del campanile più vicino. Di mio bisnonno Pasquale Ottavio conservo una vecchia botticella di legno per l’acqua da bere che accompagnava il pranzo nella risaia, con il cibo che portavano le donne in bicicletta a mezzogiorno. Forse per non perderla o confonderla con altre, la botticella porta ancora oggi un marchio a fuoco, un cerchio con dentro la D e la P, Dassano Pasquale appunto. Non so invece che fine abbia fatto il ferro da marchiatura, che veniva fatta scaldandolo sul fuoco: ricordo benissimo che, quando in un film western vidi per la prima volta da bambino la marchiatura a fuoco dei bovini, quel ferro assunse un valore incredibile nella mia fantasia.

Quando tornavo dai nonni, la prima cosa era chiedere di quel ferro e passavo la domenica a tentare di marchiare tutto quello che vedevo. Naturalmente il fuoco mi era vietato e allora bagnavo il ferro nell’acqua e marchiavo di tutto; carta, cartone, fogliame e tutto quello che era marchiabile.

In Canavese, vista la vicinanza con la Gallia, ancora oggi nelle case di campagna si può trovare una “galliota”, termine che non saprei tradurre in italiano: è una specie di carretto di ferro e legno per uso a mano. Laggiù dai miei nonni c’era il “caretun”, sempre ad uso a mano ma fatto come un carro agricolo di legno trainato dalle mucche, in miniatura. Questo carretto, con tanto di sponde e ruote a raggi di legno, era diventata la mia carovana del selvaggio “west” e, trainandola con i miei pochi averi da “cowboy”, percorrevo territori sconosciuti e pieni di pericoli nell’aia della cascina dei miei nonni.