Caro don Josè Bergesio, sono passati più di cinquant’anni dalla tua partenza verso il Brasile in quella che è stata l’avventura missionaria più lunga della Diocesi di Ivrea.

Dopo venticinque anni tornasti in Italia, trascorrendo nove anni come parroco a San Giorgio Canavese, dove molti giovani ricordano le tue iniziative in oratorio e le Messe della domenica animate dai gruppi del catechismo.

Poi nel 2005 sei ripartito per l’Africa: nove anni nella poverissima Guinea Bissau, per tentare di aprire una strada ai nostri giovani missionari.

Dopo quella esperienza sei andato in Mozambico nella missione di Maimelane: anche là hai atteso le visite di molti volontari canavesani, che sono stati sensibilizzati dalle attività che hai intrapreso.

Ora che sei tornato qui in Italia per prendere a cuore la tua salute e le nostre parrocchie, vorremmo riflettere con te su alcuni punti della esperienza missionaria.

Permettici allora di rivolgerti alcune domande

Don Josè, tu attribuisci grande valore agli scambi tra culture. Come vorresti impostare questo scambio adesso che sei in Italia?

Certamente l’esperienza acquisita, di cui ringrazio il buon Dio, non dovrà essere “messa sotto il moggio”. Cercherò di essere disponibile a trasmetterla attraverso le varie iniziative che saranno programmate dal Centro Missionario, dalle Parrocchie o anche da singoli interessati.

Oggi molti giovani cercano nuove prospettive di lavoro all’estero. Hai incontrato dei giovani italiani nei luoghi dove sei stato?

La presenza italiana in Guinea così come in Mozambico è viva particolarmente attraverso le missioni e le loro opere spesso sostenute da volontari laici, soprattutto giovani. Non mancano tuttavia italiani che operano nelle ONG e in varie imprese pubbliche o private. Molti giovani africani sono giunti in Italia e si scontrano con molte difficoltà: c’è bisogno di tante persone che favoriscano il loro inserimento.

Vedi una opportunità di inserimento per i giovani che hai conosciuto qui da noi?

La domenica del carnevale rientrando a casa a Ivrea dopo la Messa a San Giovanni mi son visto sbarrare la strada, nei vari punti di ingresso in centro città, da molti giovani africani. La cosa mi ha sorpreso sia per il loro numero e sia per la capacità di assolvere un compito così delicato con tanta competenza: responsabilità e buone maniere. Ho pensato: questo è certamente il frutto di qualcuno che si preoccupa di inserire questi giovani nella nostra società. Mi son ricordato di altri casi del genere ben succeduti. Realmente, se c’è la buona volontà da parte nostra, la cosa non dovrebbe essere così difficile visto che, analizzando il tutto dall’altra parte del mondo, gli immigrati che giungono fino a noi in genere non sono i più diseredati (vecchi, analfabeti, ammalati, senza forze ne ideali,..), bensì giovani “sognatori” di un mondo migliore e disposti a tutto per raggiungerlo. Per cui le basi su cui lavorare sono favorevoli. Penso che dovremmo iniziare cambiando qualcosa della nostra mentalità al riguardo.

Cosa suggerisci alla Chiesa e alla diocesi di Ivrea?

Di fronte alle nuove impellenti sfide che la nostra Chiesa affronta oggi – sfollati, immigrati, nuove povertà, nuovi “pagani”… – occorre non lasciarsi scoraggiare ed evitare di chiudersi in “sacrestia”, ma piuttosto proiettarsi con generosità e coraggio verso le nuove “periferie” nostrane, senza dimenticare quelle davvero “periferiche” come le missioni.

Come favorire il ricambio generazionale nelle missioni? Hai esempi sotto gli occhi da indicarci?

Visto che i missionari sacerdoti sono pericolosamente “in via di estinzione”, dovremmo ripensare le missioni più in funzione dei laici. Rivalutare forme già percorse finora e scoprirne delle nuove valorizzando viaggi di interscambio e aiuti vari di corta o lunga durata. Senza mai dimenticare che l’essenza della nostra missione cristiana è portare nel mondo, con le parole e con le opere, il messaggio evangelico.

Don Matteo Somà, Direttore Centro Missionario Diocesano

Redazione Web