(Susanna Porrino)
Nel 1970 lo psicologo americano Herbert Freudenberger coniò per la prima volta l‘espressione “burn out” (letteralmente “bruciato”, o “consumato dal fuoco”) per descrivere le conseguenze di un forte stress o di una dedizione eccessiva a ideali troppo complessi o ardui da raggiungere. Si tratta di un’espressione oggi sempre più in voga, in una società in cui si corre continuamente il rischio di bruciare e inaridire se stessi per inseguire il sogno di un successo che rischia di diventare solo la maschera luccicante di una realtà esausta.
Le culture antiche conoscevano queste forme di alienazione, ma le relegavano agli eroi immaginari di poemi e racconti; la lotta dell’uomo nei millenni che hanno preceduto la rivoluzione industriale non era, a parte rari casi, una lotta per il riconoscimento esteriore, ma per la mera sussistenza, e la vita di aristocratici e artisti appariva come un miraggio lontano privo di qualunque senso e direzione nella concretezza della vita quotidiana.
I personaggi in cui si sublimavano pulsioni e desiderio di gloria erano facilmente sacrificabili, e venivano portati come esempio di ciò che accade a coloro che cessano di vivere come uomini e rimangono imprigionati nella propria condizione di eccezionalità: Achille muore travolto dalla propria ira, Odisseo mette in pericolo la vita dei compagni per inseguire il proprio desiderio di conoscenza, e nello stesso modo si lasciano travolgere dalla spinta a superare la condizione umana tutti i grandi eroi tragici che la letteratura ha condotto fino a noi. Dall’Orlando furioso, che solo un fortuito recupero della lucidità mentale salva da un folle destino, agli eroi tragici shakespeariani, disposti a sacrificare la vita in nome di più alte passioni, ai personaggi imprevedibili e incontrollabili descritti nei romanzi delle sorelle Brontë, l’intera cultura antologica che l’uomo occidentale si è costruito rivela un’aspirazione e un’attrazione irresistibile nei confronti di una vita che sappia sacrificare se stessa ed annullare i propri limiti per realizzare pulsioni ed ideali più grandi.
Solo a partire dalla nascita dei grandi movimenti popolari, quando la vita individuale è diventata emblema e motore della vita collettiva, e, molto più tardi, con l’esplosione dei mondi virtuali e della realtà social, sono stati gli individui concreti ad assumere il ruolo di guida e ispirazione irraggiungibile.
Gli eroi e i personaggi tragici sono uomini, ma della dimensione umana non sembrano condividere nulla: si ergono come semidei nella società in cui vengono celebrati, modelli perfetti della distruzione dei limiti e delle difficoltà umane e vincitori di fronte a tutte le sfide in cui altri hanno fallito.
I film, i social, ogni aspetto della narrativa occidentale contemporanea ci orienta verso un’idea di successo basata sul denaro e sul riconoscimento degli altri, senza troppe preoccupazioni nei confronti di ciò che può essere o meno adatto e salutare per l’uomo. Vivere la vita come i protagonisti di una favola che si evolve e cambia i propri requisiti a seconda delle culture e delle generazioni ha i suoi pregi, ma, come aveva già dimostrato la Madame Bovary di Flaubert (e, in un’ottica più moderna, anche il Cigno nero di Aaronofsky), le realtà apparentemente più appetibili sono quelle per cui occorre pagare il prezzo più alto, e sacrificare ogni momento o desiderio di tranquillità, debolezza e spontaneità.
Se lo sport di vertice è probabilmente l’ambiente in cui è più semplice notare i segni esteriori di tali eccessi, i social offrono però la pericolosa opportunità di rendere qualunque esistenza assoggettata a standard di perfezione, innaturalezza e perenne competizione che sembrano non lasciare scampo: occorre imparare a trovare il coraggio, come abbiamo visto fare dalla ginnasta americana Simone Biles, di riconoscere e amare la nostra natura umana, e proteggerla e preservarla sopra ogni altro desiderio di gloria, che, se lasciato libero di governarla, rischierebbe di distruggerla trasformandola in un’esistenza meschina e disumana.