(di Alessandro Masseroni)

“Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti” (Mc 9,10). Con queste parole si conclude il Vangelo di questa Domenica e oggi, come allora, la domanda continua ad assillarci, cosa vuol dire “risorgere dai morti?”. La Chiesa ci insegna infatti che alla fine dei tempi quando Gesù ritornerà “per giudicare i vivi e i morti”, ci ricorda il Credo Niceno-Costantinopolitano, tutti saremo chiamati a risorgere: chi per una resurrezione di Vita, chi per una resurrezione di morte.

Questa dimensione però è uno dei volti dimenticati del cristianesimo che stranamente, nei suoi primi germogli, non sapeva che riconoscersi come una “comunità escatologica” perché orientata verso l’ἔσχατον, verso “le cose ultime”, ovvero verso Cristo, colui che la Tradizione ce lo presenta come l’ερκωμένον, “il veniente”.

La Resurrezione dai morti ci dice che Dio non disprezza nulla di ciò che siamo, non disprezza la nostra storia, non disprezza la nostra carne, non disprezza nemmeno la nostra fragilità, ma anzi l’assume in sé perché, come terra arida, possa essere trasfigurata. “Quod semel assumpsit, nunquam dimisit” scrisse un grande padre della Chiesa, Gregorio Nazianzeno, che, tradotto, significa: “ciò che [Il Verbo] assunse una volta, non l’abbandonò mai”.

Questo è il motivo più profondo della Trasfigurazione: far meditare a quei pochi osservatori, solamente tre apostoli, che nella nostra solidarietà con Cristo, che ha voluto assumere la nostra natura umana, siamo chiamati anche a noi a regnare con lui oltre la tentazione, oltre la morte.

Il corpo di Gesù e le sue vesti brillano di uno splendore sovrannaturale come brilla la sua Chiesa, Corpo mistico di Lui. A noi l’incarico di non vivere divisi in un dualismo corpo-anima, per cui io sono solo la parte spirituale di me e il corpo mi è solo fornito temporaneamente come veicolo, questa è la visione del diavolo, dal greco dia-ballo, letteralmente colui che “divide in due parti”, da cui l’accezione più comune del “divisore”.

Noi siamo unità, non siamo formati da un corpo meno degno dell’anima, ma tutto il nostro essere è riflesso pur sempre imperfetto, appunto perché richiede compimento e salvezza, ma comunque riflesso, del volto di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana.

 

Mc 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.