Chi pensava di conoscere tutto (o quasi) sulla dinastia che diede l’impulso decisivo all’unificazione dell’Italia, forse ha trascurato il segreto contenuto in una sala del castello di Racconigi, quello prediletto dal sovrano che, con la prima guerra d’indipendenza, inaugurò il nostro “Risorgimento”.
Fu, infatti, Carlo Alberto («l’italo Amleto»… ), il principale attore politico degli eventi cruciali del trentennio che, tra il 1820 e il 1849, segnarono i destini storici della nostra nazione.
Si deve a un bel saggio di Gabriele Reina, “Il sogno etrusco dei Savoia”, illustrato da splendide immagini del fotografo Massimo Listri (sulla rinata rivista FMR, n. 2), la riscoperta di una sorprendente passione artistica (ma forse non solo artistica) del principe di Carignano.
Senza dubbio, nella serie delle figure che compongono la dinastia sabauda, Carlo Alberto costituisce una personalità singolare e molto contraddittoria, oscillante tra le tentazioni liberali derivanti dalla sua prima formazione francese e i sussulti autoritari ereditati dalla corte torinese.
Era nato il 2 ottobre 1798 a Palazzo Carignano, da un Carlo Emanuele appartenente al ramo cadetto dei Savoia e dalla principessa tedesca Maria Cristina Albertina di Sassonia.
Proprio la madre, che avrà una grande influenza nell’educazione del futuro sovrano, non è ben vista dalla corte torinese, perché nel castello di Racconigi si incontra con intellettuali di tendenze illuministe.
E il padre, quando arrivano le armate rivoluzionarie francesi, si mette al loro servizio iscrivendosi alla Guardia nazionale.
Questa decisione induce Albertina a trasferirsi in Francia con il figlio. Rimasta vedova quando il piccolo Carlo Alberto ha solo due anni, ma dinamica e intraprendente, la principessa cerca di affermarsi nella corte imperiale e, come racconta Gianni Oliva nella autorevole monografia “I Savoia. Novecento anni di una dinastia” (Mondadori), suscita le attenzioni di Napoleone stesso, cui presenta il figlio Carlo Alberto.
La formazione del giovane principe si svolge quindi nel clima culturale dell’Impero, prima in un collegio parigino, poi in un pensionato di Ginevra tenuto da un pastore calvinista dove si studia il pensiero di Rousseau.
Nel 1814, dopo la sconfitta di Napoleone, il nuovo re di Sardegna, Vittorio Emanuele I, vuole il ritorno a Torino dell’adolescente erede al trono per sottrarlo alla madre «giacobina» e per educarlo alle future responsabilità di governo.
E così, a 16 anni, il giovane principe lascia la Francia e arriva nella capitale piemontese per essere sottoposto a una completa “rieducazione”: «Avremo molto da fare – scrive il re – per distruggere nel Carignano il cattivo influsso dell’educazione liberale che ha ricevuto da sua madre, ma spero ne possa riuscire qualcosa di buono».
Il conte Filippo Grimaldi del Poggetto diventa il suo precettore, affiancato da un cappellano confessore, che lo segue per tutta la giornata, dal risveglio fino alla sera.
Nel castello di Racconigi, Carlo Alberto compie così la sua rieducazione, tra preghiere, lezioni di filosofia morale, studi biblici, esercitazioni di scherma, battute di caccia nel parco.
La storia successiva del nostro Savoia è senz’altro nota a quanti hanno frequentato le scuole patrie, ma non è certamente solo una curiosità il focus di Gabriele Reina sulla sala etrusca voluta nel castello di Racconigi dal giovane sovrano che nel 1831, a 33 anni, era arrivato sul trono dopo la morte senza eredi di Carlo Felice, ultimo rappresentante del ramo principale dei Savoia.
Come si spiega la scelta di dare lustro al proprio casato facendo allestire nel castello preferito uno studio “all’etrusca”? Certamente, la moda per gli Etruschi era cresciuta nel corso del Settecento.
Nel 1726 era stata fondata a Cortona l’Accademia Etrusca, che ebbe tra i suoi membri Winckelmann, Voltaire e Montesquieu.
Anche la sfortunata regina di Francia Maria Antonietta aveva commissionato alle manifatture di Sèvres un servizio “all’etrusca”.
E furono senz’altro le nuove, clamorose scoperte archeologiche a suscitare la decisione di Carlo Alberto di ideare una “sala etrusca” nel castello di Racconigi: tra il 1823 e il 1827, a Tarquinia, erano infatti venute alla luce alcune famose tombe affrescate.
Nel 1837 il papa Gregorio XVI inaugurerà la prima galleria etrusca del Vaticano.
E lo scrittore Stendhal, all’epoca console di Francia a Civitavecchia, entusiasta per i nuovi ritrovamenti archeologici, arrivò a dire che la civiltà etrusca era superiore a quella romana.
Senza dubbio la fioritura di quella civiltà precedette la fondazione di Roma.
Ed è indiscutibile – come attestano tutti i reperti artistici – la sua affinità iconografica con la prima civiltà greca.
Di fatto, il giovane re piemontese, appena salito al trono, convocò a Torino l’eclettico artista bolognese Pelagio Palagi (architetto, pittore, arredatore…) e gli affidò la decorazione dei palazzi reali e del castello di Racconigi che già era stato ristrutturato, senza badare a spese, dall’architetto pinerolese Ernesto Melano.
Capolavoro del Palagi fu proprio la realizzazione del Gabinetto Etrusco, che diventerà lo studio privato di Carlo Alberto, ma avrà anche una funzione politica di prestigio, quando sarà destinato al ricevimento degli ospiti più importanti del sovrano.
Il Palagi lo concepì come una sontuosa sala di una perduta reggia etrusca e lo decorò con affreschi, mosaici, vasi, colonne, tavoli e sedie in stile.
I fregi parietali rappresentano figure della mitologia e scene di caccia: l’arte venatoria ha sempre costituito una delle occupazioni preferite dai Savoia, come mostrano il complesso di Venaria Reale e la Palazzina di Caccia di Stupinigi.
Nulla sopravvive delle dimore dei lucumoni etruschi di Volterra, Chiusi, Veio, ma l’opera realizzata da Palagi e dalle maestranze che diresse ha tutto il fascino di quel popolo per certi versi ancora misterioso.
E non è da escludere che il re sabaudo abbia coltivato il sogno (d’altra parte, la storia successiva andrà proprio in quel senso…) di diventare l’erede, per un Regno dell’Alta Italia, dei re etruschi che furono tra i protagonisti della storia di Roma.
Circolava allora l’opinione (da Carlo Alberto forse condivisa) che gli Etruschi avessero contribuito all’incivilimento dell’Italia più dell’Impero dei Romani; impero, la cui riedizione sarebbe diventata, un secolo più tardi, la fantasticheria preferita di un nuovo Duce e la rovina fatale della dinastia.
In coerenza con il suo carattere, invece, dopo la definitiva sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, il principe di Carignano seppe ritirarsi dignitosamente dalla scena e prendere la via dell’esilio, considerando che un nuovo re – il figlio Vittorio Emanuele II – avrebbe potuto ottenere dall’Austria condizioni di pace più onorevoli.
Carlo Alberto morirà in solitudine, a 51 anni, nel lontano Portogallo, il 28 luglio, quattro mesi dopo aver lasciato il trono. Aveva perso una guerra, ma aveva avviato un processo che avrebbe portato alla conquista dell’indipendenza e all’unificazione del Paese. E soprattutto aveva lasciato la grande eredità della prima carta costituzionale – lo Statuto Albertino – che resterà per un secolo la base del futuro stato italiano.
Come scrisse di lui Piero Pieri, nella sua “Storia militare del Risorgimento” (Einaudi), «Dopo troppe oscillazioni e incertezze, egli aveva trovato la sua vera via nel grande movimento nazionale italiano, pur senza comprenderlo appieno.
Ma quando nella primavera del 1849 era sceso per la seconda volta in campo con i suoi figli, in un’impresa da molti giudicata disperata, egli e l’opera sua si erano finalmente trovati all’unisono con la coscienza nazionale».
Piero Pagliano