(Graziella Cortese)
Grazie al genere cinematografico del biopic (che ripercorre la biografia di un personaggio realmente esistito), veniamo alla scoperta di storie incredibilmente vere, a volte tenute nascoste nei meandri degli archivi segreti di Stato. È il caso della vicenda narrata nel film di questa settimana: la vita di Melita Norwood, importante scienziata britannica e spia per il Kgb, ha dapprima ispirato il romanzo “La ragazza del Kgb” di Jennie Rooney e in seguito la pellicola di Trevor Nunn.
Ma è inutile aspettarsi scene d’azione e inseguimenti alla James Bond, tutto è rigorosamente ispirato a un sobrio autocontrollo inglese. Siamo nel 1999. Joan è una tranquilla signora in pensione, che cura i fiori sulla sua veranda londinese, quando all’improvviso sopraggiungono gli agenti della polizia e la arrestano con l’accusa di spionaggio e alto tradimento nei confronti della Corona.
Durante l’interrogatorio l’anziana donna racconta poco alla volta la verità: alla fine degli anni ’30, giovane studentessa di fisica a Cambridge, si innamora di Leo Galich, un ragazzo rivoluzionario di origine ebrea, che la avvicina a un gruppo di giovani comunisti. In seguito la ragazza comincia a lavorare presso il centro di ricerca diretto dal professor Max Davies e al piano top secret Tube Alloys Project, legato all’utilizzo della bomba atomica durante la seconda guerra mondiale.
Quando Joan è messa di fronte all’orrore di Hiroshima e Nagasaki si convince a fornire informazioni sull’ordigno nucleare alla potenza sovietica, con un’idea insolita di quello che significa ottenere la pace fra le potenze mondiali: possedere le stesse armi significa acquisire un pericoloso equilibrio che diventa atto di non belligeranza. E forse la storia ci ha insegnato che oggi è davvero così.
Il film è anche il ritratto di una singolare antieroina, capace di manovrare nell’ombra ingombranti segreti, e coltivare nella sua compostezza sentimenti e forti passioni.