(Cristina Terribili)
Un articolo dell’Huffington Post, a firma di Mattia Feltri, titola “Non siamo resilienti, perché non sappiamo cosa voglia dire”. Il termine “resilienza” ha trovato notorietà da qualche mese a questa parte per il famoso Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), messo su dal Governo per accedere ai miliardi europei utili per uscire da questo momento difficile dovuto alla pandemia. Per l’Accademia della Crusca, l’origine della parola “resilienza” la troviamo agli albori del pensiero prescientifico e scientifico perché associato alla fisica, e sottintende a quella capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. Chiaro? Stiamo parlando dunque della capacità di un oggetto di rimbalzare, o di essere elastico, e di ritornare alla forma originaria dopo una manipolazione.
Traslato in psicologia, il termine “Resilienza”, è diventato sinonimo di spirito di adattamento, capacità di recuperare l’equilibrio psicologico a seguito di un trauma, sopravvivere con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale. Se facessimo un parallelismo tra le diverse capacità dei materiali di resistere ad un urto, alle diverse personalità e al loro modo di fronteggiare le difficoltà, per tornare poi allo stato base, forse la cosa si fa interessante: se facciamo riferimento alla teoria dei cinque fattori di personalità (“teoria dei Big Five”), esistono 5 dimensioni che descrivono le diversità tra individui.
La prima dimensione è quella che fa riferimento all’estroversione-introversione, quindi a persone che hanno un approccio aperto e positivo verso la vita e la socialità e persone che di contro sono presi più dal proprio mondo interiore; la seconda dimensione è rappresentata dall’amicalità e si sviluppa lungo un continuum che passa dalla cortesia, alla cooperatività, all’ostilità e al cinismo. La terza dimensione fa riferimento alla coscienziosità, cioè a quella capacità di autoregolarsi che cammina da una parte verso l’affidabilità e la scrupolosità, dall’altra verso la noncuranza o la negligenza.
Le ultime due dimensioni fanno riferimento al nevroticismo-stabilità emotiva (dove nel nevroticismo troviamo la vulnerabilità, l’insicurezza) e, infine l’apertura all’esperienza, in cui si trovano creatività ma anche per converso conformismo o mancanza di originalità. Se quindi ognuno di noi, nella propria condizione di formichina in cui si mescolano queste cinque dimensioni, si trova di fronte ad una condizione che lo pressa, lo spintona e lo strapazza, cercherà, attraverso la “resilienza”, di tornare al proprio stato originario. Chi è taciturno e meditabondo tornerà ad essere tale, così come chi è socievole e aperto al cambiamento. Essere resilienti non significa cambiare la propria personalità: al massimo in psicologia, si cerca di permettere alle persone di sviluppare o di accrescere quelle competenze che fanno sentire la persona in maggiore equilibrio con se stessa e con il mondo che la circonda.
Il Covid troverà, anche per questo Natale, tante persone diverse: ognuno affronterà le feste secondo il proprio stile. A tavola, dunque, dovremo di nuovo far sedere la zia brontolona col cugino no vax, col fratello che si fa le canne, con lo zio che ha una soluzione per tutto, con la nonna che ti offre un secondo piatto di cannelloni perché soltanto vedendo tutti mangiare abbondantemente penserà che il mondo abbia un’opportunità anche stavolta…
Una cosa però possiamo provare a farla tutti; abbassare i toni, accendere una candela, rivolgere una preghiera, un pensiero e dirci che il Natale è arrivato, che abbiamo bisogno di perdonare e perdonarci di più, perché anche quest’anno ce l’abbiamo fatta a sopravvivere, a resistere… magari un po’ sgualciti, ma ci siamo.