(elisa moro) – Padre amato, padre nella tenerezza, nell’obbedienza e nell’accoglienza; padre dal coraggio creativo, lavoratore instancabile, sempre presente ma nell’ombra: con queste parole Papa Francesco ha descritto la figura, sempre attuale, di San Giuseppe, nella Lettera apostolica “Patris corde“, pubblicata nel dicembre 2020, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione dello Sposo di Maria quale Patrono della Chiesa universale.
Papa Francesco ha voluto esprimere “ciò che nel suo cuore sovrabbonda”.
In questo tempo di crisi umana e sociale, molte persone, volti che spesso rimangono senza nomi, hanno segnato e custodito la vita di malati o di fratelli in difficoltà:
“medici, infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose, e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare la crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera”.
Tutte le persone che lavorano, pregano e soffrono per il bene comune
“possono trovare in San Giuseppe un intercessore, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un sostegno e una guida. […] A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine” (Patris Corde, Introd.).
Un uomo, Giuseppe, custode umile e silenzioso della Famiglia di Nazareth, che ha accolto con fede semplice e concreta il Mistero dell’Incarnazione e che non ha esitato a seguire le indicazioni dell’Angelo, nemmeno in momenti di prova:
“Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto” (Mt. 2, 13), nella terra dell’antica schiavitù, per mettere in salvo le loro vite.
Non esita Giuseppe, per custodire il divino Bambino e la sua Sposa,
“a farsi profugo, a vivere in una terra straniera, a cercare un alloggio e un lavoro” (A. Canopi, 2014): egli partecipa di una dura sorte, che oggi molti fratelli patiscono nella generale indifferenza, spesso denunciata da Papa Francesco.
Proprio questo episodio, che sinteticamente rappresenta questa paternità, apice del donarsi totale e non del possesso, quanto mai necessaria nell’attuale società e di cui il Papa più volte fa cenno all’interno della Lettera, viene descritto iconicamente in una singolare tela di Caravaggio del 1596, il “Riposo durante la Fuga in Egitto”, conservata a Roma, nella Galleria Doria Pamphilj.
Il tema della fuga in Egitto faceva parte della tradizione pittorica italiana, ma normalmente prevedeva che la Sacra Famiglia fosse mostrata in cammino, con la Madonna e il Bambino sull’asino e san Giuseppe a piedi.
Qui invece Caravaggio immaginò Maria, Giuseppe e Gesù stremati dal viaggio, fermi a riposare accanto a un fiume, presso un bosco di querce e pioppi.
Si tratta di uno dei pochi paesaggi dipinti da Caravaggio, in cui si scorge una simbologia ricca ed elaborata, segno di una profonda conoscenza delle Sacre Scritture da parte dell’artista.
Secondo lo storico dell’arte Maurizio Calvesi, uno dei massimi conoscitori di Caravaggio, il pittore ha infatti voluto raffigurare, da sinistra a destra, il percorso della salvazione cristiana, che dall’inanimato minerale (il sasso) passa all’animale (l’asino), poi all’essere umano (Giuseppe) e all’angelico (l’angelo violinista), per concludersi con il divino (la Vergine che abbraccia il Bambino Gesù).
Ecco allora che la figura di Giuseppe diventa il segno dell’umano che tende al divino, di un padre, “ombra dell’unico Padre celeste” (P.C. 6), che innalza lo sguardo, divenendo modello e intercessore per ogni credente.
Nell’opera pittorica, Giuseppe veglia, a protezione della sua famiglia.
È stanco, sfinito dal viaggio, ha i piedi doloranti e le sue palpebre sono appesantite dal sonno.
Eppure, nonostante questa debolezza, rinuncia al riposo ristoratore: regge uno spartito all’angelo, messaggero di Dio; sono le battute iniziali del mottetto “Quam Pulchra es” di Noel Bauldewijn, omaggio ai committenti dell’opera, i Padri Oratoriani di Roma.
Giuseppe, qui raffigurato in quest’insolita mansione, diventa il mezzo con cui Dio – attraverso la melodia celestiale, nel caso del quadro – opera la salvezza e giunge al cuore dell’uomo; come ricorda Papa Francesco:
“dobbiamo usare lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza” (PC. 5).
Dio si fida di ogni uomo, della sua capacità di progettare, di essere disponibile, di inventare, come ha fatto con San Giuseppe; sicuramente in Egitto
“la santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie…Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre” (ibidem).
Con profonda gratitudine e fiducia verso il Patriarca Giuseppe, “che può chiedere anche l’impossibile a Gesù e a Maria” (PC. Introd.), si può guardare allora a questo grande Santo con la preghiera che Papa Francesco ogni giorno gli rivolge:
“Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. […] Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen”.
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