(Susanna Porrino)
Di privacy e di identità sul web si parla ormai da anni, e puntualmente il problema si ripropone con l’esplosivo successo di una nuova applicazione; in questi giorni, nel mirino è TikTok, un social network lanciato dalla Cina e utilizzato principalmente per la creazione di brevi clip della durata inferiore ad un minuto.
Più di uno Stato ha accusato l’applicazione di usufruire in maniera illecita e priva di sufficienti tutele dei dati personali dei propri utenti, richiedendone l’eliminazione o proibendone l’utilizzo.
La questione della tutela della propria identità è estremamente delicata e difficile da trattare, specialmente con i più giovani.
Le piattaforme oggi più in voga (TikTok, Instagram, Snapchat, YouTube) contano nel numero dei loro utenti una percentuale altissima di popolazione inclusa tra i 10 e 18 anni; un’età in cui in primo luogo è difficile comprendere a pieno cosa significhi cedere i propri dati personali ad una multinazionale (specialmente per una generazione di millenials nati e cresciuti in una realtà in cui la percezione è che, per quanto accurate possano essere le tutele, la propria identità finisce inevitabilmente per divenire esposta e controllabile) e in cui a prevalere è generalmente il bisogno di vedersi riconosciuti e apprezzati da altri.
Le piattaforme social, probabilmente in modo intenzionale, hanno educato i propri consumatori ad espandere in maniera graduale ma sempre più totalizzante la porzione di vita condivisa sul web, creando una mentalità e un’attitudine collettiva che, di fatto, stravolge i principi su cui si basavano i concetti di privacy e di rispetto dello spazio personale che oggi si tenta di ristabilire.
Tendenza che, comunque, non trova un riscontro solo nei social, ma in ogni aspetto della nostra cultura; la paura (legittima) di un ritorno alla censura, e il conseguente il pensiero che non esistano azioni o temi giusti o sbagliati, che ogni cosa debba essere concessa, o che ogni uomo sia destinato a conformarsi ad un unico modello di vita, ha raso al suolo ogni criterio in base al quale in passato si ritenevano degni di tutela e di segretezza alcuni aspetti o momenti della vita.
Se fino ad un secolo fa esistevano categorie dell’esistenza soggette alla legge non scritta dei taboo, oggi è difficile stabilire un confine tra la sfera privata e quella pubblica senza apparire scostanti o retrogradi; la propria vita diventa molto spesso di dominio pubblico in maniera così invasiva da rendere la questione dell’invasione della propria privacy un problema secondario, nel momento in cui si perde l’idea che esista effettivamente uno spazio privato da mantenere protetto e nascosto.
Il gesto stesso di rendere la propria immagine di dominio pubblico, seppur con le dovute tutele e limitandone la visione ad un pubblico più o meno selezionato di spettatori, rimane comunque il riflesso di voler concedere all’esterno di una parte consistente di sé e della propria identità, lasciandola sospesa tra la possibilità di venire accolta e accettata dall’approvazione altrui e quella di venire invece bruscamente rigettata; e tale concessione si rivela in tutta la sua profondità e rilevanza proprio in questo secondo caso, quando diventa chiaro che la noncuranza altrui è percepito non come un rifiuto di un oggetto esteriore o di un dettaglio di scarsa importanza, ma come un rifiuto della propria persona ad un livello molto più intimo e globale.
È d’altra parte sulla ricerca continua di consenso che tali piattaforme basano la propria esistenza, consenso che necessariamente richiede l’intervento di terzi; ed in quest’ottica diventa difficile percepire i rischi nel trattamento da parte di aziende o multinazionali dei propri dati e della propria persona, quando la parte più sensibile e consistente di essa è già stata messa a nudo, con il pieno consenso dell’individuo, ad un pubblico meno nascosto e meno silenzioso.
Se realmente esiste un desiderio di educare i giovani perché si possano muovere responsabilmente in una tale dimensione, occorre imparare a guardarvi con la famigliarità e con la ricerca di validazione con cui essi vi si approcciano.
Non serve un’educazione ai rischi e ai possibili danni nell’esporre la propria identità, che già sono sufficientemente conosciuti, ma un’educazione alle emozioni che realmente guidano il viaggio attraverso tali realtà, e un’educazione all’attesa nella quale coltivare, lontani dal giudizio degli altri, un proprio nucleo di identità propria, per la quale effettivamente si possano desiderare tutela e protezione.