(Susanna Porrino)
Se delle generazioni precedenti si tende a criticare l’eccessiva fissità e incapacità di muoversi al di fuori degli schemi tradizionali, la dimensione in cui i giovani di oggi si trovano a vivere è quella di una realtà “liquida” (secondo la celebre definizione del sociologo Zygmunt Bauman), in cui ogni aspetto dell’esistenza, e in modo particolare la componente relazionale (identità di genere, identità sessuale, conflitto tra il dover “apparire” e il voler “essere”) è messa davanti ad una sempre più varia e indefinita quantità di opzioni e scenari, che aumentano continuamente e che possono rappresentare di volta in volta una fonte di confusione o un mezzo per definire se stessi in modo rapido e stabile.
Ciò che mi viene più di frequente da chiedermi è se non sia in qualche modo sorta la tendenza a “normalizzare” e fissare in un’etichetta ogni momento e disagio del nostro sviluppo emotivo. Paradossalmente, l’idea che debba esistere una certa “fluidità” – sia nella definizione di sé, sia nella relazione con gli altri – è emersa parallelamente allo sviluppo di tutta una serie di categorie e termini tecnici entro cui incanalare tale fluidità.
Si tratta però di etichette che non tengono conto di quanto la nostra flessibilità (che esiste, e che certamente investe anche il campo delle relazioni) possa essere influenzata da una molteplicità di fattori non riconducibili ad un’unica ragione, e di cui spesso la componente fisica non è altro che l’estrema manifestazione.
Gli adolescenti di oggi, in un’età in cui la flessibilità e la scoperta di infinite variabili nella propria personalità sono all’ordine del giorno, si trovano a dover gestire un panorama sconfinato di definizioni in cui rientrare, finendo inevitabilmente per perdersi tra i propri sentimenti contrastanti e l’incapacità di trovare se stessi in una forma stabile.
Sentendo ragazze di 16-17 anni dichiarare di non essere in grado di innamorarsi o di provare alcun tipo di attrazione, viene da chiedersi se realmente la spiegazione sia sempre da ricercarsi nella definizione, ormai molto comune tra i giovani, di “aromantico” e “asessuale” o se invece, almeno in alcuni casi, non sarebbe necessario quantomeno valutare l’ipotesi che tale tendenza non sia dovuta a traumi e paure molto più profondi.
L’impressione è quella che, per ridurre al minimo ogni tipo di discriminazione e giudizio (in una società in cui la demarcazione netta dei propri spazi emotivi fa sì che qualunque tentativo di mettere in discussione le convinzioni altrui risulti un attentato alla autodeterminazione personale), si sia voluta regolarizzare ogni tipo di inclinazione, ignorando il peso di tutte quelle pressioni a cui veniamo ogni giorno sottoposti.
Credere che un adolescente sia autonomamente in grado di comprendere ogni impercettibile tendenza che sente muovere nel proprio animo è un’utopia; lo è ugualmente credere che sia sufficiente eliminare i cosiddetti “retaggi culturali” per renderlo libero di comprendersi.
Forse quello di cui i giovani hanno più bisogno oggi non sono nuove etichette in cui riconoscersi e vedere legittimato il proprio bisogno di far tacere ciò che li agita, ma di persone mature al punto da essere disposte ad ascoltarli realmente e guidarli in una realtà che trasmette ansia e paura perché legata ad un’immagine completamente inautentica e irrealizzabile della vita, dell’amore e delle relazioni, basata solo sul valore della performance e dell’apparenza.