(Susanna Porrino)
Il lockdown parziale in cui siamo precipitati è irrotto nel nostro Paese accompagnato da un senso di fallimento e sfiducia. Come il resto del mondo, la nostra nazione si è scontrata con un senso di esasperazione di fronte ad una minaccia che, contrariamente a ciò che si pensava, non ha ancora perso la capacità di influire negativamente sulle nostre vite.
Se la chiusura forzata che avevamo dovuto accettare in primavera aveva potuto essere una risorsa soprattutto per chi, come i giovani, poteva sfruttare il tempo libero per coltivare nuove passioni e capacità senza preoccuparsi troppo del danno economico, oggi ci accorgiamo che il lavoro e i sacrifici richiesti per costruire il futuro appaiono vuoti e insensati in una dimensione in cui non possiamo vivere pienamente il presente e le opportunità che ci offre.
Credo tuttavia che, pur con tutti i danni e gli enormi svantaggi che questo periodo sta portando, questa seconda chiusura potrebbe almeno risvegliare il bisogno di non dare per scontato il presente, prima ancora che il futuro.
La lingua araba, specchio di una cultura e di una visione del mondo completamente diversa dalla nostra, non prevede l’esistenza di tempi verbali per parlare del futuro: esistono solo il passato e il “non-passato”, perché il futuro è nelle mani del divino. La nostra cultura vive invece un costante senso di tensione che, già prima della pandemia e delle conseguenze che essa ha portato, è data dal continuo scontro tra le proiezioni che creiamo nel tempo: il futuro è un enorme deposito su cui riversiamo le responsabilità e le conseguenze di ciò che nel presente non siamo in grado di controllare, troppo impegnati nella lotta contro la paura di non riuscire al stare al passo con un percorso predefinito di cui a volte non conosciamo neanche bene la meta.
Se di futuro possiamo parlare, non siamo però in grado di agire nel presente in modo da migliorarlo: esso è una meta lontana e astratta da cui tentiamo di fuggire, sprecando così tempo e opportunità e lasciandoci cullare da un illusorio senso di eternità (che, in realtà, maschera il senso di impotenza di fronte alla morte e alle sofferenze che non potremo evitare nel nostro cammino).
La preoccupazione, ma anche l’entusiasmo, per l’avvenire sono scarsi, perché esso ci appare già segnato: le scienze ci spiegano ciò che dovremo affrontare, e la società propone delle tappe prestabilite attraverso cui ogni individuo deve passare (la giovinezza e i suoi divertimenti, l’università e l’ingresso nel mondo adulto, la carriera professionale con tutte le complicazioni che essa porta con sé, la vecchiaia e il progressivo ritiro da una vita attiva…).
Questo strano periodo sospeso che stiamo vivendo, ci può far riflettere sul tempo che abbiamo sprecato a rendere passato un “non-passato” che non abbiamo vissuto. L’illusione del futuro, almeno per come lo conoscevamo fino ad un anno fa, è stata sottratta al nostro sguardo; e privati della dinamicità del presente, ci accorgiamo di quanto ciò che adesso usiamo per riempire il tempo vuoto senza poter uscire è stato in alcuni casi usato per riempire il tempo “pieno” di cui disponevamo prima.
La continua molla tra speranza, delusione e sconforto ci sta rendendo consapevoli di quanto ciò che dovremmo temere non è tanto l’impotenza di fronte all’avvenire, che si spiega e si svolge indipendemente di fronte a noi, ma la possibilità che abbiamo di lasciare intenzionalmente scivolare via la vita che abbiamo a disposizione: senza alcun controllo sul domani, l’unica cosa che possiamo fare è innamorarci del nostro presente, e imparare – tenendo bene a mente la lezione anche per quando saremo di nuovo completamente liberi di farlo – a curarne e valorizzarne ogni momento.