(Susanna Porrino)
Ieri si è ufficialmente chiuso l’anno scolastico 2020, in un clima segnato da due sentimenti opposti: da un lato il sollievo per una situazione che va gradualmente attenuandosi e per la fine di una didattica a distanza che, pur avendo adempiuto alla propria funzione, presentava problemi sempre più evidenti; dall’altro l’incertezza per un futuro che, tra problemi economici e tensioni politiche, sembra acquisire toni sempre più accesi.
In questa atmosfera si colloca anche, con modalità del tutto straordinarie, lo svolgimento di un esame di Stato che purtroppo è la dimostrazione più evidente di un Paese a cui piace pensare in grande ma rimanere poi sospeso in un alone di mediocrità.
Agli studenti in fase di Maturità è stata assegnata la stesura di un elaborato che rispecchiasse la serietà di un percorso compiuto in cinque anni: l’obiettivo era forse lasciare allo studente la possibilità di muoversi in autonomia in una ricerca attiva e personale, scoprendo e modulando l’uso degli strumenti acquisiti nel tempo; ricerca però decisamente “congelata” dalla concessione di un massimo di dieci minuti di tempo per esporne i contenuti, lasciando a malapena lo spazio per uno sguardo generale sull’argomento.
Nello stesso modo, ad ogni ragazzo è stata richiesta una preparazione completa e sicura su ogni materia (peraltro su programmi terminati da meno di tre settimane, viste le condizioni) per poi scegliere di riservare alla trattazione di ognuna cinque minuti scarsi.
Non è di esercizio della capacità di sintesi ciò di cui si parla, ma di paralisi dell’approfondimento e di un occhio decisamente più attento alla quantità rispetto alla qualità. L’incoraggiamento alla ricerca personale e alla spinta individuale verso la cultura e lo studio viene ribadito in più momenti dalle stesse autorità, ma viene poi sacrificato in nome di una visione “multidisciplinare” che nei fatti si concretizza in una serie di collegamenti tra le materie spesso cronologicamente o razionalmente ben poco spontanei e in una maratona “di tutto un po’” che – rigorosamente regolata dallo scorrere di un timer per cui anche il tempo del respiro appare sprecato – dovrebbe rispecchiare la complessità e la profondità degli argomenti trattati in un intero anno.
Il problema non è tanto il modo in cui ogni scuola o insegnante approcci il proprio compito, ma la percezione che dall’alto viene trasmessa dell’istruzione in generale.
L’idea che ogni individuo debba limitarsi a dimostrare di avere acquisito le competenze base uguali per tutti (senza alcun interesse per l’approfondimento e il pensiero personale) si applica bene alla produzione seriale tipica delle industrie, per cui il prodotto finale deve essere il più possibile fedele a quello originale; non può però funzionare per gli studenti: se si vuole realmente creare una scuola che sviluppi le competenze personali di ognuno e cresca cittadini, abbastanza consapevoli di sé e del mondo da poterle impiegare con il beneficio collettivo, occorre incoraggiare la diversificazione tra i vari percorsi e dare la priorità ad una concezione verticale dello studio, che vada il più possibile in profondità.
La ricerca di un panorama perfettamente globale sulla cultura e sulle scienze può essere d’effetto e apparire completo, ma richiede necessariamente l’eliminazione di buona parte delle informazioni e disperde ogni tipo di curiosità, che poi è ciò che permette di passare dal pensare in grande all’immergersi completamente in una reale grandezza, che più viene esplorata più aumenta il proprio fascino, e che per questo rifugge ogni tipo di mediocrità.