Nei Paesi ad alto rischio di turbolenza politica, militare, sociale, economica, per proteggersi all’interno o dalle minacce esterne vengono chiusi gli spazi aerei e con essi le frontiere.
L’effetto, per chi è lì per ragioni di svago o lavoro, è quello di sentirsi in trappola e senza soluzioni. È una brutta sensazione neppur troppo attutita dalla speranza che non durerà per lungo tempo.
Ma la lunghezza del tempo è determinata da ciò che capita tra la chiusura e la riapertura. Se in alcuni Paesi la turbolenza evoca un colpo di stato, guerra e guerriglia, rivolte socio-economiche, invasioni o evasioni, per noi in questi ultimi tre mesi, la turbolenza ha avuto il volto sconosciuto del Covid-19, dove gli spazi chiusi si sono rimpiccioliti al perimetro di casa e al territorio comunale. Come essere in gabbia.
Ieri sono state aperte le frontiere regionali, che credevamo non esistessero, almeno fino a quando ci dissero che non potevamo neppure andare nelle confinanti Lombardia e Liguria.
Sempre ieri il nostro Paese ha riaperto le frontiere dello spazio Schengen a cui da anni non facevamo più caso, svolazzando a destra e a manca per ferie e lavoro. Uno Schengen ridotto a pezzetti tra “apri e tieni chiuso” basato molto sulle iniziative dei singoli Stati, per viaggiatori più graditi e altri meno. In ordine sparso.
Una specie di Fase 3 tra limitazioni, controlli, registrazioni, app e chiamata alla responsabilità personale più che in Fase 1 e 2.
Di spazi ha parlato anche il presidente della Cei; non aerei, non territoriali ma spazi pastorali, gli oratori estivi avvolti dall’incertezza – non tutti, per fortuna – se riaprire o meno, sulla scorta delle stringenti regole per l’organizzazione e la gestione.
“Non abbiate paura ad aprire, nei modi in cui sarà consentito, i vostri oratori – ha detto il presidente della Cei – quest’anno dobbiamo puntare in alto, perché siamo chiamati a fare un servizio che forse nemmeno noi immaginavamo”.
Una fatica benedetta.