Il lago di Viverone è un luogo di incomparabile bellezze. Soprattutto a distanza dalle rive. Mi trovo a galleggiare mollemente nelle sue acque con pochi altri che approfittano di queste radiose giornate di fine estate e scrutando le acque alzo lo sguardo, osservo il Mombarone sornione e la cima dei Tre Vescovi poco discosta: Ivrea è là e Biella dietro la Serra.
Nel Medioevo questo lago si chiamava di San Martino, perché nel IX secolo monaci benedettini, legati al culto del santo, fondarono un monastero e dissodarono le terre rivierasche. Navigo nelle “acque territoriali” di Azeglio (che è provincia di Torino) e la chiglia della mia barca sta galleggiando in prossimità dei resti di un villaggio palafitticolo, un sito tutelato dall’UNESCO. Faccio rotta verso Anzasco e cerco di carpire qualche segno dalle profondità delle acque in quel tratto, perché mi viene in mente una delle leggende del lago, legata al passaggio di San Martino di Tours, cavaliere dell’esercito romano, noto per via di metà mantello donato al mendicante ignudo (l’altra metà del mantello non poteva donarla perché non era sua, ma proprietà di Roma). Responsabile della famosa “estate di San Martino” dell’11 novembre di ogni anno, il suo nome era anche ricordato – fino a pochi anni fa – come proverbiale modo di dire: “fare San Martino” cioè traslocare, cambiare lavoro e casa, andandosene. L’anno lavorativo dei contadini terminava infatti agli inizi di novembre, dopo la semina. Se il datore di lavoro, proprietario dei campi e della cascina, non avesse rinnovato il contratto con il contadino per l’anno successivo, questi era costretto a trovare un nuovo impiego altrove, presso un’altra cascina. Un cambio di lavoro comportava quindi un trasloco per il contadino e la sua famiglia. Nel corso dei tempi, San Martino è stato eletto protettore di albergatori, cavalieri, fanti, mendicanti, sinistrati, vendemmiatori, forestieri e financo dei sarti (per via del taglio preciso al mantello eseguito con la spada).
Ora, tornando a noi, si narra che San Martino, provenendo da Aosta e passando per Ivrea, chiese ospitalità ai cittadini ma questi gli chiusero le porte in faccia. Egli stese quindi il suo mantello sulle acque della Dora Baltea e si fece trasportare sino nei pressi di Anzasco (all’epoca il fiume doveva seguire un altro tracciato), dove fu ben accolto malgrado fosse straniero, fondandovi il borgo di San Martino. Questo borgo, dopo la morte del santo, scomparve tragicamente nelle acque del lago. Alla vigilia della catastrofe, un angelo fu inviato sotto le sembianze di un mendicante a chiedere l’elemosina ma solo qualcuno lo aiutò. L’Angelo avvertì quindi i pochissimi buoni di fuggire. Quella notte il borgo fu inghiottito dalle acque del lago, compresa la chiesa di San Martino con tutte le abitazioni, e il resto della popolazione perì nella tragedia. Da quel giorno, dice la leggenda, quando sul lago soffia il forte vento della Valle d’Aosta si sentono i rintocchi delle campane della chiesetta di san Martino che giace in fondo al Lago.
In effetti oggi c’è una apprezzabile brezza, ma non sento campane suonare. Torno nella parte orientale del lago e mi trovo nella “acque territoriali” di Biella, ma il mio approdo è a Comuna, frazione a sud di Viverone. Ormeggio (non mi ricordo mai i nodi da fare…) e alzo lo sguardo: il lungo tramonto staglia netta la linea della “bella dormiente” rassicurante ad ovest con la sua cima, la punta Quinseina a 2344 metri delle Alpi del Gran Paradiso. Torno verso casa a Ivrea, mentre sulla strada si attardano i pellegrini che percorrono la via Francigena verso Vercelli, in cerca di un ricovero per la notte.
Fabrizio Dassano