(Fabrizio Dassano)
Quando si giocava a nascondino e si correva con il cuore in gola negli ultimi metri prima di toccare la tana, e si era l’ultimo non ancora stanato, l’adrenalina saliva al massimo per poter gridare a squarciagola: “Tana libera tutti!”. Era un momento davvero liberatorio che tutti, chi più chi meno, ci portiamo ancora dietro.
Oggi lo è stato per andare alla conquista di un dehors per prendere un caffè come un tempo, con la berretta in testa, la mascherina sulla faccia, il pastrano addosso, e l’ombrello in mano. Autentici simboli della riapertura. Quei segni che gli antichi interpretavano come segnali di buon augurio…
Accanto alla stufa accesa leggevo infatti che giocare a nascondino è ormai una tradizione tramandata da generazione in generazione ed è uno dei giochi più popolari nel mondo. Tutti i bambini amano nascondersi, cercare, correre ed essere trovati; andare a cercare gli altri, esplorando i territori altrui senza però lasciare incustoditi i propri.
L’origine del gioco poi si perde nel più remoto passato: ci sono i racconti di Polluce che, intorno al II secolo narra di un gioco all’aperto della Magna Grecia chiamato apodidraskinda (dal greco dialettale apodrason-skaso-kripdo = fuggire scappare nascondersi).
In alcune parti d’Europa lo si usava come rituale nei boschi per la ricerca dei segni naturali dell’inizio della primavera. Ma pare proprio che il gioco attuale sia un’eredità del XVII secolo (il secolo della Peste), quando lo si giocava tra i nobili come una delle poche forme di socializzazione e di corteggiamento tra giovani aristocratici, diffuso inizialmente in Italia, Francia e Spagna, quindi in tutta Europa.
Un gioco da bambini che è anche diventato un torneo a 15 squadre che Yasuo Hazaki professore alla Josai International University voleva candidare alle prossime olimpiadi (sospese) di Tokio.
In Italia dal 2010 si tennero per qualche anno i campionati mondiali di nascondino, con in palio una foglia di fico d’oro: perché è molto dura nascondersi dietro un dito nel paese fantasma di Consonno (Lecco). Le gare di nascondino si erano infatti tenute nell’area di un ambizioso progetto di un eccentrico industriale brianzolo, il Conte Mario Bagno che, nel 1962, voleva trasformare questo piccolo borgo, immerso tra il verde di prati e colline nella mecca del gioco e della perdizione. Via tutti gli abitanti, largo alle slot machine.
Il progetto prevedeva la costruzione di edifici dalle forme più strambe, una galleria commerciale arabeggiante con tanto di minareto, affiancato da una pagoda cinese, un castello medievale, una balera, fontane multipiano e un hotel di lusso. Doveva esserci addirittura un circuito automobilistico.
L’imprenditore però, non aveva fatto i conti con la natura. Nel 1976 una frana isolò Consonno dal resto del mondo per sempre, ben prima del lockdown. L’ex antico borgo che sognava di diventare la Las Vegas della Brianza si trasformò così in una città fantasma.