Il 28 ottobre Matthew Perry, l’attore famoso per aver interpretato il personaggio di Chandler nella serie televisiva Friends, viene trovato morto nella sua casa di Los Angeles, lasciando sgomenti non solo i protagonisti della sitcom americana, andata in onda dal 22 settembre 1994 al 6 maggio 2004, ma anche una popolazione che, in tutto il mondo, si riconosceva in quei personaggi e li amava.
La sua vita era stata purtroppo minata da una forte dipendenza dall’alcol e da farmaci, per cercare di combattere una profonda angoscia, la paura di rimanere solo e un tumore al colon che lo aveva costretto a sottoporsi a 14 interventi chirurgici, come scrisse nella prefazione della biografia dell’attore Lisa Kudrow (che interpretava il ruolo di Phoebe nella stessa serie), “Matthew è sopravvissuto contro ogni possibile previsione”.
Perry aveva deciso di raccontare la sua vita in un libro, uscito in Italia nel 2022 dal titolo “Friends, amanti e la Cosa Terribile” e il suo prologo sembra un cinico presagio “se vi va, potete considerare quello che state per leggere come un messaggio dall’aldilà, dal mio aldilà”. Eppure questo essere vivo non ha permesso all’uomo Matthew di dare un corso nuovo alla vita, il sentirsi un sopravvissuto lo ha esposto ulteriormente a comportamenti a rischio, guidati dalla paura, dal pensiero costante di non essere abbastanza, di non essere importante.
Nella vita che l’uomo ci narra veniamo a conoscere pratiche oggi fortunatamente lontane, (ad esempio la possibilità che si prescrivessero farmaci per adulti o capaci di sviluppare dipendenza o portare ad autolesionismi, cosa invece sottovalutata tra gli anni sessanta e settanta che hanno favorito, nello sviluppo cerebrale, l’apertura di una porta verso le dipendenze e verso una visione della vita che porta a credere che l’unico modo che si ha per non soffrire è facendo ricorso ad una sostanza esterna).
Quello che accade in molte persone che soffrono di una qualche forma di dipendenza è il trasformare delle esperienze vissute fin da piccoli come forme di abbandono. Perry dice di aver convissuto con un cervello pronto ad ucciderlo, in realtà lo erano i suoi pensieri, orientati a tornare solo su eventi che, invece di essere considerati opportunità, venivano dirottati verso sentimenti di malessere.
Quei pensieri che confondono la dimensione del reale con quello della fantasia e dei desideri, e rendono sempre più labile lo stare con i piedi per terra, radicarsi, essere consapevoli di sé e del mondo intorno e poter trovare benessere in quello che si è e che si ha.
I processi mentali che permettono ai pensieri di essere valutati, monitorati e regolati sono dette metacognizioni e le strategie metacognitive sono quei metodi che permettono di raggiungere una regolazione delle emozioni soprattutto quando queste sono di tipo negativo. Se nella persona dipendente il sistema metacognitivo induce a pensare che solo con l’uso di una sostanza si possa raggiungere un obiettivo desiderato, il lavoro psicoterapeutico proprio sul complesso metacognitivo aiuta a rivedere e correggere pensieri e modalità di far fronte ai problemi più idonei e salutari.
Avere la possibilità di affrontare un percorso di analisi e conoscenza dei propri schemi di pensiero e di quei processi che mantengono un comportamento dipendente, è offrirsi l’opportunità di avviare un processo di cambiamento che può essere sostenibile nel tempo.
La vita di Perry e tante altre persone con le sue stesse sofferenze psicologiche rattrista ancor più se si pensa a quante opportunità siano state negate alternando percorsi di riabilitazione e disintossicazione che ruotassero sempre e solo intorno a sostanze e non all’attivazione di un pensiero diverso a cui potersi aggrappare, quasi come fosse un filo di Arianna, per poter uscire dal tunnel della dipendenza.