(Susanna Porrino)
La campagna vaccinale che procede, tra imprevisti tecnici e le discussioni (alcune ragionevoli, altre assolutamente infondate) di chi mette in dubbio l’efficacia di tale rimedio, offre uno spiraglio di luce a cui guardare dopo mesi di stanchezza e tentennamenti. La speranza che questo periodo storico si chiuda e lasci lo spazio per un ritorno graduale alla normalità è certamente rassicurante, ma ci offre anche l’occasione per riflettere su quanto ciò che abbiamo vissuto abbia modificato il nostro modo di percepire e vivere la realtà.
I personaggi dei miei ricordi passati ad oggi indossano tutti una mascherina; la normalità di un tempo tendenzialmente senza regole e senza limitazioni è sempre più difficile da richiamare spontaneamente dopo un anno in cui l’esistenza è stata regolata sul susseguirsi di lockdown a tempi alterni, distanziamenti, coprifuoco ed eventi online che, per quanto poco gratificanti, sono comunque entrati a far parte della nostra memoria.
La domanda che forse dovremmo porci è se – e quanto – ciò a cui fino ad oggi ci siamo più o meno adattati farà sentire le conseguenze nel futuro; se il nostro unico bisogno sia quello di tornare a vivere come appena risvegliati da un incubo da dimenticare o se invece dovremmo prestare attenzione a riconoscere in ciò che è sorto finora degli aspetti o dei sintomi di una realtà che, al di là o a causa del virus, presenta delle forti criticità.
Torneremo alla normalità, certo. Ma non c’è il rischio che si tratti della normalità “distorta” di un popolo che si è scoperto incapace (oggi in maniera incontestabile) di fidarsi sia delle proprie istituzioni, sia delle spiegazioni che la scienza e i media gli offrono? La normalità cui torneremo sarà quella di chi ha imparato a sospettare di ogni informazione, a temere la presenza degli sconosciuti intorno a sé, a vedere un attentato alla libertà in leggi e provvedimenti che dovrebbero sostenere la società?
Più in generale, torneremo a cercare i volti e il contatto con chi ci sta accanto, o dopo un primo slancio di entusiasmo ricominceremo a rifugiarci in quelle forme di alienazione che già molto prima della pandemia facevano temere per la debolezza della nostra competenza sociale, ad una vita che, ieri come oggi, veniva comunque spesa molto più tra le mura di edifici e locali che non negli spazi aperti di cui solo ora stiamo riscoprendo il valore?
La pandemia che abbiamo vissuto è stata l’incubatrice di questioni silenti ma vive da tempo (la lotta ai vaccini, la disinformazione, lo scontento generale per le scelte di governi e istituzioni da cui gran parte della popolazione non si sente rappresentata né tutelata) a cui si sono aggiunti i traumi e le deviazioni di una crisi che ha colpito la realtà umana su tutti i fronti. Il timore è quello di non riuscire ad affrontare i problemi emersi in questo anno e di non dare loro una risposta, abbandonandosi all’esaltazione per la riacquistata libertà prima, e all’indifferenza portata dal tempo poi.
Nella realtà rapida e istantanea in cui viviamo i problemi, come le notizie, invecchiano; o, se non invecchiano, sono ripetutamente messi da parte per occuparsi di questioni più scottanti e attuali. La nostra società è negli ultimi anni cresciuta così, addormentandosi sulle ferite e sulle lacune che andavano via via accumulandosi nel corso della storia; e c’è da chiedersi se questa pandemia sarà stata potente al punto da far sorgere domande scomode su come cambiare i problemi di un tempo che la nostalgia ci sta facendo legittimamente apparire roseo e incantato, o se continueremo a rimandare fino allo stremo il momento della resa dei conti.
Torneremo alla normalità, certo; ma abbandonandoci a una corsa folle e incontrollata verso il passato e tutti gli errori che abbiamo già compiuto, o intraprendendo un processo consapevole e coraggioso di analisi e costruzione del futuro?