A sinistra, tra i due litiganti Conte e Schlein spunta un terzo leader: Maurizio Landini, segretario della Cgil (prima della Fiom). È una svolta radicale che taglia i ponti con la tradizione partitica dei Ds e dei Popolari (legati alla Cisl) e con il populismo originario di Beppe Grillo. Prima il leader pentastellato ora la segretaria dem hanno infatti firmato il referendum Cgil contro le leggi sul lavoro del Governo Renzi (Jobs Act), proponendo in alternativa il ritorno all’art. 18 dei tempi di Sergio Cofferati, leader della sinistra sindacale e politica.

Si riapre il dibattito tra liberalizzazione del mercato del lavoro e rigida tutela pubblica dell’intero settore. Soprattutto avviene il passaggio del primato della politica alla leadership del maggior sindacato italiano; è un fatto senza precedenti perché neanche il mitico Di Vittorio (segretario Cgil nel dopoguerra) potè mai scalzare la primogenitura di Togliatti.

Travolti dalla crisi del “campo largo”, Conte e Schlein hanno optato per la delega a un soggetto esterno, ma senza una significativa consultazione della base. La segretaria dem ha precisato che la questione era nel suo programma per le primarie: ma ai gazebo ha ottenuto 550mila voti, mentre gli elettori del Pd sono alcuni milioni. Di qui le proteste diffuse nel partito, sia nell’area riformista (Guerini, Del Rio) sia nella sinistra post-comunista (il leader romano, Goffredo Bettini, in un’intervista al “Corriere”, l’ha accusata di una “guida solitaria”; a Torino il vice-presidente regionale, Daniele Valle, ha imputato alla segretaria errori “nel merito e nel metodo”, perché “non si guida il Pd a colpi di abiure”).

Sul piano politico la conseguenza più seria è l’ulteriore rottura con i Centristi che, pur molto divisi tra Calenda, Renzi, Bonino, sono almeno unanimi nel difendere il Jobs Act. Con quali voti Conte e Schlein pensano di vincere il referendum di Landini? È politicamente accorta la scelta di abbandonare un sindacato importante come la Cisl, che conta cinque milioni di iscritti?

Il clima “freddo” nel centro-sinistra oscura i rilevanti problemi dell’area di Governo, incentrata sulla personalizzazione delle candidature europee della Meloni, di Tajani e del discusso generale Vannacci. È pur vero – come ha spiegato Milena Gabanelli su La7 di Enrico Mentana – che dal ’94 (con Berlusconi) ad oggi ci sono stati 24 leader di partito candidati alle Europee, pur sapendo di essere “incompatibili”; ma la gravità del contesto di guerra (dall’Ucraina al Medio Oriente) avrebbe richiesto una consultazione europea “autentica”, con leader seriamente impegnati per Strasburgo. E invece anche il previsto confronto televisivo (da Bruno Vespa) tra Giorgia Meloni e Elly Schlein coinvolgerà due capilista che hanno già pronta la rinuncia all’Europarlamento.

Il quadro politico continua inoltre ad essere turbato dall’esplodere di nuove inchieste giudiziarie a livello locale e regionale. Dopo Bari, Torino e Palermo, ora l’accusa di corruzione coinvolge a Genova il Governatore della Liguria Toti. Vanno doverosamente attese le sentenze, ma sin d’ora emerge una debolezza strutturale del sistema-partito e un’egemonia discutibile di vari poteri finanziari (talvolta sotto la copertura della “società civile”). Le indagini della Magistratura toccano in modo trasversale gli schieramenti. La “questione morale” dovrebbe essere affrontata alla radice, oltre le scadenze elettorali, partendo da una riflessione critica sul ruolo dei partiti in una società ad economia di mercato: garanti della democrazia, come dice la Costituzione repubblicana, o “vassalli” dei “poteri forti”?

Il contesto di scontro continuo destra-sinistra non favorisce una valutazione serena sugli interventi da attuare nell’interesse del Paese mentre la disaffezione elettorale, accertata da tutti i sondaggi, dovrebbe indurre tutti a promuovere il primato dell’etica nella vita democratica. Meno risse, più ragionamenti, meno trofei da esibire, più proposte costruttive.