(Mario Berardi)
La difficile navigazione dell’Esecutivo e la scadenza del Quirinale mettono a dura prova i tre leader della maggioranza: Conte, Salvini, Letta (nell’ordine della consistenza dei gruppi parlamentari). M5S, Lega, Pd hanno la maggioranza assoluta nelle due Camere: sono quindi in grado di favorire una sollecita approvazione del bilancio statale 2022 e una rapida scelta per il Colle, in alternativa all’esercizio provvisorio e a votazioni interminabili per il Quirinale.
Il vero nodo è la crisi dei rapporti politici, tra i partiti e, in particolare, all’interno delle stesse formazioni politiche, come segretari dimezzati o discussi.
Il governo Draghi è vissuto come “stato di necessità”, ma nei due Poli stentano a formarsi vere e credibili formazioni compatte e alternative. La “Terza Repubblica” non riesce a decollare e si ricomincia a discutere di sistema elettorale.
Il nuovo leader pentastellato, l’ex premier Conte, ha perso il controllo dei gruppi parlamentari sotto la spinta di Grillo e Di Maio e ha ritirato il suo candidato (Licheri) come capogruppo a Palazzo Madama; per il Colle aveva espresso il “via libera” a Draghi, venendo subito smentito per le rimostranze dei parlamentari che temono le elezioni anticipate; è per l’alleanza di centro-sinistra ma senza i centristi (e quindi senza maggioranza), frena sull’ipotesi Di Maio di ingresso nel Gruppo europeo dei Socialisti e Democratici (per non apparire subalterno a Letta).
In concreto, l’unico vero punto d’unione dei Grillini è la difesa del Reddito di Cittadinanza, provvedimento particolarmente gradito all’elettorato del centro-sud, ove i Pentastellati mantengono risultati a due cifre.
Il segretario della Lega, Salvini, è esposto su due fronti: l’ala moderata del partito, con Giorgetti, ha contestato apertamente la sua scelta sovranista, chiedendo l’ingresso nel PPE della Merkel, in coerenza con il sostegno alla linea europeista di Draghi; d’altra parte Giorgia Meloni lo sfida a rompere con l’unità nazionale e a tornare decisamente a destra. Il leader del Carroccio è tuttavia rimasto a metà del guado: al rilancio delle intese con i sovranisti di Budapest e Varsavia e ai nuovi attacchi sui migranti al Viminale ha affiancato la contestuale difesa del Governo Draghi, dimenticando la forte sintonia con Bruxelles dell’ex Presidente della BCE. E anche sul Quirinale Salvini ha espresso due linee: dapprima si è detto a favore di Draghi, ma senza elezioni anticipate; quindi, dopo l’attacco della Meloni, non ha escluso il ritorno alle urne, ma chiedendo al centro-destra la sua leadership (contestata dai partner Berlusconi e FdI).
Nel Pd Letta è uscito rafforzato dal voto amministrativo, ma ha subìto una battuta d’arresto per lo stop del ddl Zan; nell’assemblea dei senatori (svoltasi a porte chiuse) l’ala moderata ha contestato il ritardo nella trattativa sulla legge, mentre la sinistra ha presentato il testo come intoccabile bandiera identitaria (ma quale congresso dem ha discusso e votato sull’identità di genere?).
In concreto il segretario non controlla pienamente i gruppi, divisi anche sul Quirinale; difende il Governo Draghi (ma da sinistra Bersani lo invita a prendere le distanze dalle misure sulla liberalizzazione, molto lontana dalle idee socialiste); continua ad auspicare una “maggioranza Ursula”, ma Conte, Calenda, Renzi e Berlusconi non ci stanno, con veti incrociati.
Conte, Salvini, Letta, leader di un Parlamento senza maggioranze qualificate, dovrebbero prendere atto, senza tatticismi, che il governo di solidarietà nazionale, voluto da Mattarella, per ora non ha alternative, mentre il Paese combatte ancora contro la pandemia e per l’attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza, con uno stanziamento europeo senza precedenti. In una situazione storica diversa (la lotta al terrorismo sanguinario degli anni settanta) la Dc e il Pci diedero vita a una breve parentesi di “solidarietà nazionale”, che difese le istituzioni democratiche e la convivenza civile, anche reggendo alla tragedia dell’assassinio di Aldo Moro.
Oggi le forze politiche di maggioranza, divise e frammentate, potrebbero usare i 18 mesi che ci separano dal voto politico per definire meglio i programmi e le alleanze, con una visione strategica delle esigenze del Paese, superando i personalismi e gli interessi di corrente. Dopo due anni di pandemia sarebbe un suicidio politico perdere il treno della ripresa economica e sociale.