(Cristina Terribili)
“Ucciso dall’indifferenza”, ha scritto Michel Mompontet, salutando per l’ultima volta il caro amico René Robert. Questi era un 85enne fotografo, conosciuto soprattutto per i suoi scatti ai ballerini di flamenco. Il 20 gennaio scorso, dopo cena, esce per i soliti quattro passi in un popoloso quartiere in pieno centro di Parigi. Non si sa cosa fa cadere René, se un malore o un inciampo. Cade a terra, sono le 21, vicino c’è una fermata della metro, locali, gente di passaggio, ma nessuno si ferma. Non si sa se René abbia chiesto aiuto: chi lo conosceva parla di un uomo con la voce sempre bassa, molto discreto, ma sicuramente, al momento della caduta, era vivo e vigile. Alle 6 del mattino seguente qualcuno chiama l’ambulanza, ma i medici possono solo riscontrare che René Robert è morto a causa di una grave ipotermia. È morto di freddo, ucciso dall’indifferenza.
Parigi potrebbe essere Torino, Roma, Milano, ma anche Ivrea, Biella, o un altro qualsiasi paese in cui viviamo. E René Robert potrebbe essere un nostro genitore, amico, fratello, parente. Potremmo essere noi stessi. Potremmo essere noi ad accasciarci e ad essere ignorati, diventare inesistenti, mentre tante persone ci passano accanto senza offrirci una parola, chiedersi se abbiamo bisogno di aiuto, allertare i soccorsi.
René Robert farà parte di uno di quei 500 morti l’anno a Parigi durante l’inverno (ma le nostre città non sono da meno). Ognuno di loro ha un nome, un’età, una storia. Ognuna di quelle persone che compongono una statistica ha avuto affetti, progetti, sogni… Ma nessuno ha più pensato loro come persone degne di interesse.
Qualche tempo fa, durante un’intervista, Corrado Staiano diceva che “chiudersi nelle sicurezze personali uccide la comunità”. Ognuno è chiuso nei propri pensieri, nei propri bisogni della quotidianità e non si accorge dell’altro. Cammina, si muove per la città nell’intento di svolgere i propri impegni e non vede cosa accade intorno a sé, come se ci fossero solo oggetti che favoriscono o impediscono un passaggio, che sono da superare o ai quali bisogna accodarsi, ma che perdono la significatività della persona.
Adriano Zamperini, docente di psicologia sociale a Padova, scrive molto sull’indifferenza e dice come questo tipo di società ci stia insegnando la distanza dall’altro. Di come non ci dobbiamo immischiare nella vita dell’altro, che dobbiamo farci i fatti nostri. Se non si pensa agli altri, se agli altri si rimane indifferenti, allora gli altri non esistono e se non esistono non sentiamo il peso delle loro richieste e dei loro bisogni. Questo meccanismo di difesa dal mondo esterno diventa ancora più vero quando l’altro è uno sconosciuto, quando non appartiene alla mia cerchia più stretta. Eppure come soggetti pensanti noi potremmo presupporre che quella persona a terra un nome ce l’abbia, che abbia qualcuno da avvisare.
Limitarci a giustificare la nostra indifferenza pensando che di persone senza fissa dimora che popolano le strade ce ne sono molte e che non si può rivolgere la parola a tutti, non ci esonera dal dovere civico e morale di provarci.
Dobbiamo sempre tenere a mente che la società la facciamo noi: possiamo cambiare alcune traiettorie, possiamo fare la differenza, aprire i nostri occhi, provare ad immaginare la vita di chi è di fronte a noi. Possiamo dargli credito di essere umano e di sentirci un po’ più umani anche noi.