(Susanna Porrino)
“Per forza! Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costitu-zione, ma ognuno viene fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che sono tutti felici, perché non ci sono montagne che ci scoraggino con la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura!”.
Così scriveva nel 1966 Ray Bradbury, uno dei più celebri scrittori di fantascienza americani, nel suo romanzo meglio riuscito Fahrenheit 451.
In un’epoca in cui da appena trent’anni la televisione aveva cominciato ad essere un ospite fisso nelle case degli statunitensi (e non solo), Bradbury scriveva di una distopica realtà futura in cui gli individui avrebbero dimenticato la sofferenza e la guerra, avrebbero abbandonato i residui di una letteratura ormai ridotta ai minimi termini e sarebbero divenuti copie perfettamente identiche gli uni degli altri, incapaci di relazionarsi vicendevolmente perché totalmente assorbiti dalle immagini virtuali trasmesse sulle pareti di ogni abitazione.
Banalmente, e troppo spesso, classificato come un romanzo “scolastico”, utile agli insegnanti per trasmettere esclusivamente il valore della letteratura (nel mondo in esso descritto i libri vengono proibiti e bruciati, per favorire l’alienazione degli individui), Fahrenheit 451 è in realtà l’esplorazione lucida e dettagliata di un’epoca in cui, per la prima volta, la tecnologia e la nascita della società di massa riuscivano a realizzare l’esigenza umana di fuga dalla realtà, culminando nella società che oggi conosciamo.
Nell’universo di Montag, il personaggio principale dell’opera, ogni testo letterario deve essere eliminato, perché la riflessione su situazioni di dolore e sofferenze di cui essi sono portatori può turbare la serenità raggiunta in tanti anni di sforzo e progresso. Gli uomini che popolano questa realtà ricercano la felicità e la quiete tanto quanto la ricerchiamo noi; e per quanto il nostro status di lettori consapevoli possa permetterci di guardare con un occhio critico il loro atteggiamento ottuso e squilibrato, o di paragonare le loro alienazioni e manie con le stesse di cui oggi siamo anche noi divenuti vittime, tuttavia non può mancare un senso di vicinanza per quell’ossessivo desiderio di pace e sicurezza, anche illusoria, a cui aspira ogni essere umano, indipendentemente dalla propria istruzione e cultura.
Eppure, i personaggi di quest’opera si ingannano: la mancanza di riflessione non ha saputo assicurare loro felicità, ma solo un costante stato di ebbrezza e astrazione dalla realtà. In modo molto simile a ciò che avviene oggi con la realtà dei media, anche loro vivono spinti dalla premura di imitare e compiacere un pubblico con cui si tengono in contatto solo attraverso gli schermi delle proprie pareti. Il desiderio di essere all’altezza del compito li rende creature senza identità, non perché prive in partenza di essa, ma perché impegnate a svilupparne un’altra.
Contrariamente a come viene presentato nella maggior parte delle volte, Fahrenheit 451 non è un libro che ci parla solo di quello che la letteratura può portare all’uomo, ma soprattutto di ciò che l’uomo può portare alla letteratura.
Gli uomini del romanzo non leggono (come peraltro non scrivono) perché non vivono. Non intende farci riflettere sul problema della lettura, ma sul problema del nostro rapporto con la vita e con la morte, e sui rischi a cui ci espone una sensazione di onnipotenza e cecità rispetto al passato. Ecco perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua pubblicazione, ha più da insegnare oggi alla nostra società rispetto al pubblico per il quale era stato pensato.